mercoledì 18 aprile 2012

Santa Maria in Porto



La chiesa ed il monastero costituiscono un unico complesso, anche se il monastero è più antico della chiesa di oltre mezzo secolo. I religiosi decisero di erigere un nuovo monastero perché i veneziani , dominatori dal 1441 al 1509, ostacolarono la costruzione a lato della chiesa di Santa Maria di Porto Fuori. Dante, Paradiso, canto XXI, v. 123. << Nostra Donna in sul lito adriano >>. I veneziani temevano che l’edificio potesse offrire un facile rifugio ai nemici della Repubblica. Così i Canonici Lateranensi costruirono, poi, la grande basilica . Cronologia delle costruzioni che sorgono in questa area. Monastero: Inizio lavori 1496 Chiostro: Inizio lavori 1502 Ingresso dei Canonici: Inizio lavori 1503 Chiesa: Inizio lavori 1553 Copertura del tetto: 1561 Consacrazione: 1606 Facciata della chiesa: Termine dei lavori 1784 La Basilica di S.Maria in Porto fu eretta fra il 1553 ed il 1606. Per la sua costruzione fu utilizzato in parte anche del materiale proveniente dall'antica chiesa d'età onoriana di S.Lorenzo in Cesarea. La facciata, maestosa ed imponente, realizzata in sasso d'Istria, adorna di semicolonne e di statue, s'articola in due ordini, per l'inferiore dei quali l'architetto Camillo Morigia, verso la fine del sec. XVIII, si attenne alle linee d'un preesistente disegno. L'interno del tempio misura m 68 x 47,50 ed è in stile rinascimentale di gusto palladiano. Esso è diviso in tre navate mediante due file di pilastri alternati a colonne ed è coronato da una cupola ottagona che raggiunge metri 48,16 d'altezza. Sull'altare maggiore spicca il noto bassorilievo marmoreo dell'XI secolo raffigurante la Vergine orante che passa sotto il nome di "Madonna Greca". La leggenda lo vorrebbe giunto in volo sulle rive del mare di Ravenna, preceduto da due Angeli sostenenti fiaccole, alle prime luci dell'alba dell'8 aprile del 1100. Dietro all'altar maggiore, attorno al giro dell'abside, si dispiega un bel coro ligneo, che fu intagliato fra il 1576 ed il 1593 da Maestro Marino francese. Prossimamente la guida dettagliata. 



La Madonna Greca

L' immagine della Madonna Greca, venerata nella basilica-santuario di Santa Maria in Porto, è un delicato bassorilievo bizantino scolpito su marmo pario, che rappresenta la Madonna in atteggiamento di preghiera con le braccia alzate. Ai lati del capo, circondato da un’aureola, due scudi rotondi recano inciso a lettere greche il monogramma "Madre di Dio".
La Vergine indossa una ricca tunica, stretta da un cingolo attorno ai fianchi, sulla quale sono distribuite undici piccole croci di metallo dorato.
La festa della Madonna Greca viene celebrata a Ravenna la prima domenica dopo Pasqua (Domenica in Albis) perché, secondo la leggenda, l'immagine della Vergine apparve sul litorale di Porto Fuori, nei pressi di Ravenna, proprio la Domenica in Albis del 1100.
Poco prima dell'alba dell'8 Aprile 1100, Domenica in Albis, Pietro degli Onesti, secondo la leggenda tramandata dalle Carte Portuensi, stava recitando con altri sei monaci il mattutino, quando l'abside venne rischiarata da una luce. Non trattandosi della luce del sole, i monaci uscirono sulla spiaggia per seguire il chiarore che aveva ferito la notte e grande fu la loro meraviglia quando videro che sulle acque galleggiava un’immagine della Madonna, scortata da due angeli, ognuno dei quali recava una luminosissima fiaccola. Di fronte al prodigio i monaci si inginocchiarono e dopo aver salutato la Vergine con preghiere e canti, esortarono il beato Pietro a prendere la sacra immagine. Pietro, però, non si riteneva degno di accogliere la Vergine (si considerava "peccatore" e come "Pietro peccatore" sarebbe passato alla storia) ed invitò i suoi confratelli ad andare incontro alla sacra immagine. Questi, però, non riuscirono nell' intento perché la Vergine si allontanò di fronte al loro avvicinarsi. Sollecitato di nuovo dai confratelli ad andare incontro alla Vergine, il beato Pietro protese le braccia ed a questo gesto gli angeli scomparvero e la sacra immagine gli si fece incontro.
Così narra la leggenda, unica testimonianza scritta che racconti l'approdo sulle spiagge ravennati dell'immagine sacra. È certo, comunque, che il bassorilievo venne realizzato in qualche "officina" sulle rive del Bosforo, da dove si imbarcò su di una nave ai tempi della prima crociata, probabilmente per sfuggire allo scempio dell'iconoclastia. Non si esclude l'ipotesi che sia stato uno dei crociati a portarla dall'Oriente fino a noi. 



Unico dato certo è che nei dintorni di Ravenna esisteva sin dal XII secolo un tempio dedicato a Maria, eretto da Pietro degli Onesti sul luogo dove successivamente sarebbe sorta quella "casa di nostra Donna in sul Lido Adriano" (Dante, Paradiso, Canto XXI), oggi Santa Maria in Porto Fuori, che andò interamente distrutta durante un’incursione aerea notturna il 6 Novembre 1944. In questa chiesa, che per diverso tempo custodì l'immagine della Vergine Greca, si conservavano il sarcofago di Pietro "peccatore" (ancora oggi visibile) ed alcuni affreschi della scuola giottesca romagnola, dei quali oggi è possibile ammirare solamente alcune tracce. Presso la stessa chiesa, inoltre, era fiorente la pia unione dei "Figli e delle Figlie di Maria", fondata dallo stesso Pietro degli Onesti allo scopo di promuovere il culto della Vergine e di ricordarne l'arrivo ogni Domenica in Albis. La pia unione, all'inizio del Trecento, poteva contare su ben 700 mila iscritti, in tutta Europa.
Verso la metà del XV secolo, Ravenna passava sotto il dominio dei Veneziani ed il nuovo priore veneto del tempio dedicato a Maria, Silvano Morosini, iniziò la costruzione di un nuovo monastero in città per sfuggire alle incursioni dei pirati che andavano infestando il litorale. La posa della prima pietra avvenne il 5 Agosto 1496 e nel 1503 l'immagine della Madonna Greca lasciò la chiesa di Porto Fuori per trovare nuova sistemazione in una cappella all'interno del nuovo chiostro.
Nel febbraio 1511, alla vigilia del "sacco di Ravenna" del 1512 ad opera delle truppe francesi di Gastone de Foix, Papa Giulio II fu ospite dei canonici di Porto e con una solenne bolla, il cui testo si trova inciso su una tavola di marmo nell'ambularco della sacrestia, concesse favori spirituali a quanti avrebbero esarcito elemosine in favore della fabbrica del nuovo tempio che sarebbe sorto in onore della Vergine Maria.

La prima pietra del nuovo tempio, sulla quale stava inciso "Maria Graeca Portuensium Mater, Ravennatum Protectrix", venne posata il 13 Settembre 1553 dal priore Vitale Mercati il quale aveva ottenuto da Papa Paolo III, che pochi anni prima era stato ospite dei canonici, la concessione di poter demolire l'ormai labente basilica di San Lorenzo in Cesarea, per poter utilizzare il materiale ed ereditarne i privilegi.
Nel 1570 Vitale Mercati, promosso alla dignità di Abate da Pio V, poté compiere la solenne traslazione dell'immagine della Vergine Greca dalla cappella interna del chiostro al tempio ormai in via di ultimazione.

Il culto della Vergine fu continuato anche dal successore di Mercati, l'Abate Serafino Merlini, tant'è che dopo la sua morte, avvenuta nel 1623, le pareti della cappella erano ricoperte di ex voto per grazie ottenute. La basilica, intanto, fu ultimata nella facciata e nella gradinata solamente nel 1784, pochi anni prima della "rivoluzione francese" che lasciò anche a Ravenna i suoi segni. Il santuario, infatti, fu spogliato e depredato, ed i monaci vennero espulsi. Vi fecero ritorno, però, nel 1828 e vi restarono fino al 1870; ma a causa dell'incameramento dei beni ecclesiastici si trovarono nell' impossibilità di sostenersi e pertanto lasciarono il convento al clero diocesano. L'arcivescovo Vincenzo Moretti ed i suoi successori si fecero promotori del culto della Vergine che venne solennemente incoronata il 21 Aprile 1900 dal Capitolo Vaticano nella basilica Metropolitana.
Nel 1947 fu eletto arcivescovo di Ravenna monsignor Giacomo Lercaro, che il 1 Febbraio 1948 promosse la consacrazione della città di Ravenna al Cuore Immacolato di Maria ed affidò il santuario di Santa Maria in Porto ai sacerdoti salesiani di Don Bosco.

Nel 1952, per l'instancabile opera di Don Spartaco Mannucci, fu rinnovata la solenne incoronazione ad opera del cardinale Idelfonso il quale consacrò la città e la diocesi alla Madonna.

http://www.santamariainporto.it/

martedì 17 aprile 2012

PIANTA DELL’ANTICO PORTO DI RAVENNA (sec.XVI)





Questo disegno ad acquerelli policromi appartenente alla Biblioteca Classense di Ravenna, rappresenta secondo l’interpretazione più accreditata, una ricostruzione congetturale dell’antico porto di Ravenna di Augusto. A pochi metri dal litorale viene mostrato un bacino di ancoraggio dal profilo rotondo collegato al mare da un canale definito ai lati da due palizzate. E’ stato riprodotto, nel 2005, in un numero limitato di copie, nelle stesse dimensioni e negli stessi colori dell’originale a cura dei Lions Clubs Ravenna Host, Ravenna Bisanzio, Ravenna Dante Alighieri e Ravenna Romagna Padusa. Pur non essendo riportato nella mappa alcun dato temporale, per il raffinato stile del disegno e per l’architettura in esso contenuta, è stato ritenuto ascrivibile al sedicesimo secolo.

La città

Ravenna è uno scrigno d’arte, di storia e di cultura di prima grandezza, è una città di origini antiche con un passato glorioso e fu tre volte capitale: dell’Impero Romano d’Occidente, di Teodorico Re dei Goti, dell’Impero di Bisanzio in Europa. Nelle basiliche e nei battisteri della città si conserva il più ricco patrimonio di mosaici dell’umanità risalente al V e al VI secolo e otto monumenti di Ravenna sono inseriti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Se Ravenna fu il maggiore centro politico e culturale dell’Occidente nei secoli che accompagnarono il declino della civiltà latina, nondimeno essa offre testimonianze anche di epoche più recenti: dall’archeologia della Domus dei Tappeti di Pietra al vasto porto romano di Classe. E’ la città che serba le spoglie di Dante Alighieri e ne mantiene viva la memoria con importanti manifestazioni culturali. Nel sinuoso andamento delle sue strade si legge ancora il suo passato di centro lagunare, la presenza dell’acqua nei canali che la traversavano, chiusi durante la dominazione veneziana, sul finire del ‘400, aprendo di contro l’elegante spazio della piazza maggiore, oggi Piazza del Popolo. Nel ‘700 la città fu collegata al mare da un nuovo canale navigabile, l’attuale porto, che i Ravennati chiamano Candiano: il Canale Corsini aprì allora nuove prospettive di ripresa dell’antica vocazione portuale. L’offerta culturale di Ravenna è ricca e diversificata: il MAR, Museo d’Arte della città propone esposizioni periodiche di altro profilo e ospita diverse collezioni permanenti; il Museo Nazionale di Ravenna espone un variegato complesso di raccolte, tra le quali reperti da scavi di epoca romana e bizantina; il Museo Arcivescovile comprende la Cappella di Sant’Andrea (Unesco); il Museo Dantesco raccoglie cimeli legati al culto e alla fama del Poeta, mentre il Museo del Risorgimento testimonia i vivaci sentimenti mazziniani e garibaldini che animarono i Ravennati in un recente passato. A due passi dal mare, Ravenna offre anche nove località balneari lungo i suoi 35 chilometri di costa, per una ricca varietà di occasioni di soggiorno e vacanza. L’organizzazione dei servizi è efficiente e dinamica, e la scelta per godersi la vacanza è quanto mai ampia: sole e relax, giochi, attività sportive e fitness, escursioni e parchi, fra cui quello a tema di Mirabilandia, oltre a una variegata e gustosa offerta enogastronomica. Numerose sono le piste ciclabili, che consentono di raggiungere qualsiasi punto della città, il parco Teodorico, il Planetario, il Giardino delle Erbe Dimenticate o la Basilica di Sant’Apollinare in Classe. E per gli amanti della natura e delle escursioni nulla può essere più emozionante di una sosta nell’oasi di Punte Alberete, tra silenziose foreste allagate, rifugio per rare specie di uccelli o una visita al Museo NatuRa di Sant’Alberto, situato al confine con le valli. Le storiche pinete di San Vitale e di Classe, con la loro unicità quali monumenti naturali ha motivato il loro inserimento tra le aree protette del Parco del Delta del Po. Ravenna è un mosaico che vive.

Battistero Neoniano

Il Battistero Neoniano - detto anche degli Ortodossi - è il più antico dei monumenti ravennati: la sua costruzione ebbe inizio alla fine del IV secolo e si protrasse fino alla metà del V. Costruito in laterizi, di forma ottagonale, con quattro grandi nicchie che si diramano all'esterno. Le quattro porte sono interrate, poiché il livello originario è a circa 3 metri sotto il livello stradale. Al suo interno vi troverete un ricco tesoro musivo.



Sia dalla piazza Arcivescovado: che da piazza Duomo, attraverso un cancello, si entra nella zona dove sorge il Battistero. Edificato dal Vescovo Orso alla fine del quinto secolo dopo cristo, insieme alla basilica che sorgeva sull'area dell'attuale cattedrale. E' detto Battistero Neoniano, dal vescovo Neone che vi apportò sostanziali rinnovamenti. Fece splendidamente decorare il battistero col mosaico della cupola stessa e con gli intarsi di marmi policromi nella parte inferiore. E' noto anche come Battistero degli Ortodossi, per distinguerlo da quello degli Ariani, innalzato da Teodorico, circa 50 anni dopo.

La pianta:

La pianta è ottagonale. Il numero otto non è scelto a caso. L'ottagono stà per l'associazione tra il tempo, rappresentato dal numero sette. E Dio, rappresentato dal numero uno. Sette più uno uguale a otto.

La parte esteriore:  

E' una semplice costruzione in laterizi di forma ottagonale con quattro grandi nicchie che si diramano all'esterno.Il livello originario, è circa 3 metri al di sotto di quello attuale. Per questo motivo le 4 antiche porte, sono interrate. Oggi giorno vediamo (sia dall'interno che dall'esterno) solo la parte superiore degli archi sui lati fra le 4 absidi. Gli studiosi sono concordi nel dire che in origine, un portico collegava il Battistero alla Basilica Ursiana. Attualmente,  si entra attraverso una porta rinascimentale con stipidi ed architrave di marmo; su quest'ultimo vi è inciso il motto francese: EN ESPOIR DIEU "Indarno si è cercato la ragione di esso". La parte superiore è alleggerita da lesene poco aggettanti che terminano in archetti pensili. Fra le due Leserne di destra,.. sul lato sinistro della porta,.. è stato inserito,... in fase di costruzione, ...un piccolo frammento marmoreo, di epoca romana del terzo secolo dopo cristo. Vi è raffigurato un cavaliere con in mano la corona del vincitore.

Curiosità:

Carl Gustav Jung in un suo viaggio a Ravenna negli anni 30 vide nel Battistero Neoniano un mosaico che rappresentava Cristo che tende la mano a Pietro che sta per affogare. Discusse a lungo di questa immagine con la sua compagna di viaggio, riflettendo insieme a lei sul significato dell'immagine, un'espressione dell'idea archetipa della morte e della rinascita. Solo di ritorno a Zurigo, quando cercò di acquistare una foto di quel mosaico, si rese conto che quell'immagine non esisteva.
Jung ha scritto alcune bellissime pagine, in Ricordi, Sogni e Riflessioni, raccontando della strana esperienza di Ravenna come un momento di incontro fra inconscio e coscienza, quando gli occhi fisici percepiscono una visione che non appartiene al reale, ma è comunque reale nell'esperienza: la magia dei mosaici di Ravenna ha colpito anche il padre della psicanalisi.


LEGENDA DELLA PIANTA (VEDI FOTO)

1) Fascia degli stucchi: Daniele fra i Leoni
2) Fascia degli stucchi: Scena di Traditio legis
3) Fascia degli stucchi: Cristo guerriero
4) Fascia degli stucchi: Giona tra due mostri
5) Fascia degli stucchi: due galli che beccano chicchi di grano
6) Scavo perimetrale fino alla base delle colonnine d'angolo




Interno: Schema Decorativo Generale. 

Tutta la superfice delle pareti  interne, è riccamente decorata con stucchi, intarsi di marmi policromi e mosaici. Tecniche diverse che si integrano alla perfezione, per dar vita ad un complesso straordinariamente armonico. Lo schema decorativo di base è condizionato dalla forma ottagonale e dalle aperture praticate nelle pareti; abbiamo, così: un primo giro di otto archi che ricoprono la fascia del pavimento alla base delle finestre. Un secondo giro di otto archi che ricoprono la parte della base delle finestre, alla base della cupola. Infine la cupola interamente decorata a mosaico, secondo uno schema radiale che, partendo da un medaglione centrale , abbraccia due ampie zone sferiche. Tutta la decorazione musiva è caratterizzata  dall'impiego di una tavolozza cromatica ricca sia nei colori base, sia nelle loro sfumature. Il pavimento primitivo, come si è già osservato, è a tre metri sotto quello attuale, come si può ben vedere dallo scavo perimetrale la sciato aperto. (Punto n°6 indicato nella pianta). Considerando ciò, possiamo ben immaginare quanto maggiore fosse lo slancio interno di questa costruzione, che noi ora stiamo ammirando. E' come se, anticamente,  fossimo su un palco a tre metri di altezza. Al centro, come potete osservare, vi è una vasca ottagonale di marmo greco e porfido. Fù rifatta nel 1500, e volutamente, ancora oggi, conserva qualche frammento originale.



Il Primo ordine di Archi 

Iniziamo con l'osservare la prima fascia di archi e la sua decorazione. Gli archi sorgono da colonnine di marmo cororate da capitelli, due dei quali sono di stile italo-bizantino. Gli altri sono corinzi, sormontati da pietre d'imposta a forma di piramide tronca rovesciata, leggermente sagomata a gola diritta, fra due listelli lisci, con un motivo decorativo che si conclude negli spigoli con una foglia d'acanto. L'intradosso è mosaicato con motivi ricorrenti anche in altri monumenti ravennati: festoni di foglie e frutti, nastri a fantasiose volute. Il vano dei 4 archi interlacciati alle 4 apsidi è rivestito di tarsie (opus sectile) composti da porfidi, serpentini e marmi bianchi orientali, che formano motivi ornamentali a riquadri contenenti losanghe e cerchi. 

Nel vano dell'apside sud-est troviamo un'antico altare a cippo del quarto secolo. E' composto da due pilastrini laterali con due larghe scanalature ciascuno, sui quali stanno due capitelli che sostengono una trabeazione ornata da una piccola croce al centro e da tralci di vite e due colombe ai lati. La parte centrale è composta da due colonnine a spirale , sulle quali poggia un arco, ornato da ovuli, che incornicia una conchilia. Fuori dall'arco vediamo due lunghe foglie con una pigna al centro. Sotto la conchiglia si apre la "fenestrella confessionis". Anche la mensa è antica, ed è rovesciata, per cui il piano è a contatto col cippo. Dalle quattro colonnine che la sostengono, quelle anteriori sono del diciottesimo secolo, quelle posteriori risalgono alla metà del ventesimo secolo. Nel vano dell'abside nord-est vi è un vaso romano in marmo probabilmente adibito alle abluzioni (l'abluzione è un rituale).  Sotto il vaso, vi è un capitello corinzio capovolto della fine del quinto secolo, con una sola corona di quattro foglie di acanto a grossi dentelli. I cauli formano una V e costituiscono le volute a chiocciola. Nel centro del motivo, "a lira", compare una croce. Nel vano dell'apside sud-ovest è stata collocata nel 1963 la croce del settimo secolo che si trovava sul sommo del tetto. Sotto di essa troviamo il capitello che manca da una delle colonne della loggetta. 

Le scritte in latino:

Sopra le apsidi troviamo delle scritte in latino, fatte in mosaico, che indicano l'argomento delle raffigurazioni  musive che anticamente ricoprivano i catini absidali. Non scordiamoci che le absidi anticamente erano alte oltre i 5 metri. Ora analizzeremo il testo di queste iscrizioni, quasi completamente rifatte, durante i restauri della seconda metà del diciannovesimo secolo. 

L'iscrizione sopra l'arco a destra della porta: 

IN LOCUM PASCUAE  --  IBI ME CONLOCAVIT   --  SUPER AQUA REFECT  -- IONIS EDOCAVIT ME              

Il monogramma inserito al centro si legge, probabilmente, MAXIMIANUS. L'iscrizione, tratta dal salmo XXII (1-4) significa: Il signore mi ha collocato in un luogo dove abbondano il cibo e la bevanda per ristorarmi.

L'iscrizione sopra il vaso romano:

UBI DEPOSUIT IHS VESTI   --   MENTA SUA ET MISIT AQUAM  --  IN PELVEM ET LABIT PEDE  --  S DISCIPULORUM SUORUM

Il monogramma inserito al centro si legge, probabilmente, NEON EP (iscopus) FAMULUS (servo) DEI (di Dio). L'iscrizione è un compendio di un verso del vangelo di Giovanni (XIII, 4-5), e ricorda l'episodio che precedette l'ultima cena, quando "deposte le vesti, Cristo mise dell'acqua in un catino e lavò i piedi dei suoi discepoli".

L'iscrizione sopra l'arco dove sotto è collocato l'altarino a cippo:

BEATI QUORUM REMISSAE SUNT INIQITATES ET QUORUM TECTA SUNT PECCATA BEATUS VIR CUI NON IMPUTAVIT DOMINUS PECCATUM

L'iscrizione è tratta dal salmo XXXI (1-2) e significa: Beati quelli le cui iniquità furono perdonate  e i cui peccati  cancellati; beato l'uomo al quale il signore non imputò alcun peccato.

L'iscrizione che troviamo sull'arco posto sopra la croce:

IHS AMBULAS SUPER MARE  --  PETRO MERGENTI MANUM  --  CAPIT ET IUBENTE DOMN  --  O VENTUS CESSAVIT

Il monogramma inserito al centro è di difficile e problematica lettura. L'iscrizione è il compedio di passo del Vangelo di Matteo (XIV, 25-32): " Ma alla quarta veglia della notte, Gesù andò verso i discepoli, camminando sul mare. Ed essi vedendolo, esclamarono: (E' un fantasma!) e dalla paura gridavano. Ma Gesù disse loro: (Coraggio, sono io, mon temete!) Pietro rispose: (signore, se sei proprio tu, comandami di raggiungerti sopra le acque). Gesù disse: (vieni!). E Pitro, sceso sulle acque, camminava verso di lui. Ma ecco che per la violenza del vento, Pietro si spaventò e cominciò a sprofondare. Gridò: (Signore Salvami!). Subito il signore  distese il braccio e lo trasse a sè. (Uomo di poca fede), gli disse, (perchè hai dubitato?). E quando furono montati in barca il vento cessò. Il contenuto generale delle iscrizioni si riferisce al sacramento del battesimo ed al dogma della remissione dei peccati.


La parte mosaicata, che va da sopra gli archi fino alla base delle finestre, è stata rifatta nel diciannovesimo secolo, quando vaste zone dei mosaici originari andarono perdute in occasione del quasi totale rifacimento degli archi che non erano più sicuri. Le decorazioni, rappresentano foglie d'acanto che sorgono dai peducci degli archi e si concludono al sommo degli archi stessi dopo aver lasciato libero un ovale nel quale, su fondo oro, compare una bianca figura virile in tunica e pallio.




Il secondo ordine di archi

La fascia di archi che comprende Ie finestre e decorata soprattutto con stucchi risalenti, con ogni probabilità, al primo decennio della seconda meta del V secolo, quando fu eretta la cupola al tempo del vescovo Neone. Le colonnine sono sormontate da capitelli ionici e da pulvini svasati; le otto d’angolo sostengono gli archi su cui poggia la cupola; quelle situate all'interno di ogni arco dividono la superficie di fondo in tre nicchie di cui la mediana e piu ampia incornicia la finestra, mentre Ie due Iaterali contengono edicole con figure virili viste di fronte.

Nel complesso, una leggera ed elegante galleria formata da 24 colonnine. Sopra le colonnine d’angolo vi è disposta una pietra decorata da una croce latina circondata da foglie d’acanto. I personaggi che si affacciano nelle edicole, portando rotoli o esibendo libri aperti, rappresentano probabilmente i Profeti dell’Antico Testamento. Le figure sono appena rilevate e risultano definite, piu che dallo sbalzo, da solchi piu o meno profondi, quasi a dire che sono più disegnate o graffite, che modellate. Ben lavorate ed esaltate, invece, Ie mani e le teste.  

I volti hanno un’espressione come di terrore o di sbigottimento, per gli occhi sbarrati e le pupille rese con fori circolari e profondi colmi di ombra. Guardandosi intorno si ha Fimpressione di trovarsi al centro di una stupita sfilata di larve umane. La migliore di queste figure, certamente dovuta all'artista che ha influenzato gli autori delle altre, e quelle sopra la nicchia del vaso romano: ha, al di sopra, due galli che beccano chicchi di grano da un recipiente (vedi il punto 5 nella pianta).

La figura del profeta, dalla garnba destra Ieggermente piegata e dal corpo lievemente fleeso, ha un libro aperto nella mano sinistra ed alza la destra in atteggiamento declamatorio. Ogni edicola e sormontata da un coronamento triangolare o semicircolare nel cui centro e collocata una conchiglia con mollusco, alternate tra il basso e  l'alto. Sopra i timpani delle edicole, e comunque ancora entro le nicchie, sono raffigurate coppie di animali di fronte ad un cantaro e quattro scene deIl'Antico e Nuovo Testamento: 

Daniele fra i leoni (vedi il punto 1 nella pianta); 

la scene della "Traditio legis", in cui Cristo affida a Paolo il compito di evangelizzare i popoli e a Pietro Ia croce (vedi il punto 2 nella pianta); 

Cristo guerriero con croce e libro che calpesta le teste di un leone e di un drago, simboli del male (vedi il punto 3 nella pianta); 

Giona tra due mostri marini, uno dei quali lo ingoia mentre l’aItro lo restituisce (vedi il punto 4 nella pianta).

AI di sopra degli archetti, le Iunette degli archivolti superiori erano anch'esse ornate di stucchi, eliminati intorno al 1880 come indebite aggiunte di epoche recenti; ne restano con chiarezza le impronte sul tondo scuro e qualche parte in basso. Si tratta di arabeschi con tralci di vite ed uva uscenti da vasi; pavoni e cervi. Tutti gli stucchi erano probabilmente rivestiti di colori. I pennacchi alla base della cupola sono decorati a mosaico con motivi fitomorfi i quali, dal centro di ogni vela, si espandono in forma di sontuose candeliere ricavate da piante grasse, fino a far parte della prima zona sferica della cupola. Così che viene divisa figuramente, in otto settori. In tal modo il grande complesso decorativo della cupola viene intimamente collegato alle vele e, attraverso di esse, alla decorazione sottostante.

Ora osserviamo il medaglione centrale della cupola:

La composizione della decorazione della cupola, essendo impostata su uno schema radiale, da l'impressione di essere animata da un movimento ruotante. L'illusione e particolarmente rafforzata nella zona degli apostoli, rappresentati mentre avanzano con passo ritmico. Il medaglione centrale e come il mozzo della grande ruota, vi é raffigurata la scena del battesimo di Cristo. Un tema centrale per  tutti i battisteri. Il redentore e immerso fino alla vita nelle acque del Giordano, la cui trasparenza é resa con rara efficacia, se si pensa che il mosaico non e certo una tecnica favorevole a simili effetti illusionistici. La scena ci illustra il Battista  in piedi sulla destra di Gesù, sulla riva rocciosa del fiume, nella quale, sorgono nere pianticelle; il santo indossa la tradizionale pelle e regge con la mano sinistra una ricca croce, mentre con la mano destra versa |'acqua sul capo del redentore per mezzo di una patera: si tratta di un particolare, arbitrariamente introdotto nel secolo scorso da un restauratore ma non convalidato della tradizione. In origine, quindi, quasi certamente, il Battista poneva semplicemente una mano sul capo del Cristo.

Dal cielo scende una colomba ad ali piegate. A sinistra del Redentore avanza, immersa fino al busto, la personificazione del Giordano. "C'è chi vi vede, un patriarca del Vecchio Testamento, come Mosè, che prefigurerebbe il Cristo". La figura, reca fra le mani un panno verde con cui asciugare il Cristo una volta uscito dalle acque. La composizione della scena è mal inserita nel tondo, di cui rimangono del tutto vuote ampie porzioni. A riguardo, è molto meglio costruita la scena del medaglione del Battistero degli Ariani. Osservando attentamente il mosaico, si isolerà una zona che risulta più chiara rispetto al resto, comprendente le teste del Battista e del Cristo, e la colomba: quella zona è stata rifatta nel secolo scorso. 



Cupola: zona degli apostoli (descrizione dell’opera musiva):
Intorno al medaglione gira una larga fascia con le immagini dei dodici Apostoli, che in due file capeggiate da Pietro e da Paolo avanzano portando una corona sulle mani velate. L’offerta recata sulle mani, o ricevuta dalle mani ricoperte dai lembi del pallio, di cui vi sono innumerevoli esempi nell’iconografia paleocristiana ravennate; e un uso proprio delle corti orientali. Simboleggia insieme il rispetto per sofferente o per il destinatario dell’offerta e il rispetto per la cosa ricevuta.
L’atteggiamento delle figure e tale da dar l'impressione di un procedere a tempo di musica; I’illusione é accentuata dalla scansione ritmica della composizione. Vi si alternano regolarmente Ie figure che ne costituiscono la parte significativa, e le pause, vivacizzate dalle candeliere, che ne costituiscono come l'accompagnamento. L’illusione é poi sottolineata dai colori delle vesti, che sono alternativamente il bianco per le tuniche d‘oro per i pallii e l’oro per le tuniche e il bianco per i pallii. Le teste degli Apostoli, dai tratti molto decisi, si stagliano contro lembi pendenti dei drappo che circonda il medaglione r aureola comparirà solo più tardi, nella cupola del Battistero degli Ariani. Fra un Apostolo e l’altro si erge una candeliera floreale disegnata con tessere d'oro che contrastano vivamente con l'indaco del fondo.

L’insieme di  tessere, ognuna inserita nella malta con una inclinazione diversa, fa si che la luce vibra con effimeri e sempre variati riflessi: basta un leggero spostamento dell‘osservatore, infatti, per accendere  tessere che prima erano in ombra e per spegnere altre che prima brillavano.



Cupola: zona dei troni e degli altari
E' la fascia esterna delle grande ruota delle cupola. E' divisa in 8 settori dalle candeliere che sorgono dai pennacchi sottostanti. In ogni settore è raffigurata un'esedra fiancheggiata da due brevi portici.  Nelle esedre alternativamente sono raffigurati troni e altari
nei portici laterali, ancora in alternanza, viridari e seggi vuoti: i viridari coi troni, i seggi con gli altari. Questi motivi si ripetono con leggere varianti. Gli altari, composti do una base e da 4 colonnine laterali e una centrale che sorreggono la mensa, sono il più antico esempio sicuramente databile di altare a tavola. Si noti inoltre la bellezza delle transenne e dei plutei dei viridari. I Banche questa fascia non presenti alcuna figura umana, non
ha una semplice funzione decorativa, ma e ricca di significati simbolici, forse di non agevole interpretazione: appare certo, comunque, che l'artista ha cercato di esprimere con mezzi figurativi concetti astratti molto importanti per il cristianesimo. l quattro troni, che non sono vuoti, ma coperti da un cuscino e sormontati da una croce, indicherebbero che essi sono stati approntati per il Redentore in funzione di giudice degli uomini, come e detto nell’Apocalisse; i viridari laterali, cosi, sarebbero i giardini del Paradiso. I seggi vuoti, a lato degli altari su cui e posto un Vangelo aperto, indicherebbero che in cielo e stato preparato il posto per gli eletti. Tutto il complesso, dunque, simboleggerebbe la sovranità di Cristo Giudice e la promessa di un giusto premio per i buoni.



Fonte battesimale:


Al centro della sala e una vasca ottagonale cinquecentesca, rifacimento della primitiva, con marmi dl reimpiego, come il frammento di pluteo con l’agnello che affronta una croce, del VI secolo. Sui lati della vasca di fronte alla porta c’é un ambone del terzo quarto del V secolo, ricavato da un unico blocco marmoreo, dotato di due scalini, ai lati dei quali sono due colonnine con capitelli. Sull’ambone prendeva posto il Vescovo per amministrare il battesimo che comprendeva tre fasi:
a) esorcismo e rinunzia a Satana;
b) triplice immersione nella vasca battesimale, a simboleggiare i tre giorni in cui Cristo rimase nella tomba;
c) unzione e cresima.
Usciti dalla policroma atmosfera del Battistero, ci si può soffermare con profitto nel dintorni e cercare buone inquadrature per le nostre fotografie, combinando nel modi più vari gli scorci offerti dal battistero stesso, dal campanile e dalla cupola del Duomo. La luce più favorevole si ha il mattino.




Palazzo dell’orologio

Qui vi erano collocate anticamente le chiese di S. Sebastiano e S. Marco.


Palazzo dell’orologio ( Banca di Romagna)

Questo lato della piazza era occupato da due singolari chiese, San Sebastiano, più antica, dalla parte dl via Diaz, e San Marco, costruita nel 1491, tanto vicine che dall’interno si poteva passare dall'una all’altra attraverso tre grandi archi aperti nella parete divisoria. Le due facciate erano praticamente fuse e l'aspetto complessivo verso la Piazza non era molto dissimile da quello odierno.
L’edificio svettava la torre dall’orologio con la campana, mentre il quadrante era nel riquadro centrale più in basso e recava l’indicazione di tutte le ventiquattro ore dal giorno. Quel quadrante si trova ora nel cortile dal palazzo dalla Provincia.
Nel 1783 fu costruita la facciata con la torre a l’orologio così come lì vediamo secondo il progetto di Camillo Morigia. La facciata consta di sai grandi riquadri di un leggero bugnato, con bella balaustrata sansoviniana, ad è elegante ad armonica. Nei sei riquadri, in basso, al Iati, sono due porte, e al centro è una lapide cha reca i nome dai partigiani caduti in combattimento o par rappresaglia nel periodo dal settembre 1943 all’aprile 1945. ln alto, al Iati, due finestre con timpano e, al centro, un motivo architettonico con colonna a frontone ricurvo.
Le due chiese, cha poi, sconsacrate, servirono a vari usi (il teatro dai burattini del calabre Campogalliani (dal 1905), il primo cinematografo di Ravenna (dal 1907), un marcato di pollame, uno spaccio, una macelleria, un garage) furono demolite nel 1925 e si costruì l’edificio attuale conservando la facciata del Morigia. L’edificio è da decenni di proprietà di banche (Banca nazionale del lavoro, poi, oggi Banca di Romagna).

Chiesa di San Marco
Costruita a Ravenna in Romagna nel 1491, si trovava nella piazza del Popolo di Ravenna  ed era vicina alla chiesa di San Sebastiano, più antica. Questa due chiese erano talmente vicine che dall'interno si poteva passare dall'una all'altra attraverso tre grandi archi aperti nella parete divisoria. Le due facciate erano praticamente fuse e l'aspetto complessivo verso la piazza non era molto dissimile da quello odierno.



Palazzo Rasponi del sale

Palazzo Augusta Rasponi del Sale vine costruito nel 1770. Oggi è sede, come nella maggior parte degli edifici attorno a voi, di una banca, L'Unicredit.



Rasponi del sale
I più rinnomati edifici storici di Ravenna - fatti salvi i monumenti bizantini o le chiese protocristiane - sono riconducibili a tre epoche storiche ben precise e contigue: il periodo polentano (XIII-XIV sec.), il periodo veneziano (XV sec.), e il periodo della dominazione dei Rasponi (XVI-XVII). L'edilizia dei Rasponi si sviluppa agli inizi del XVI secolo, dopo la battaglia campale di Ravenna tra il Papato e i Francesi (1512), dove questi ultimi radono praticamente al suolo la città. Profittando delle rovine, alcuni gruppi di avventurieri, capitanati dai Rasponi, si impadroniscono della città; e a poco a poco ne diventano i signori, facendo comunque un'opera di ricostruzione e abbellimento. In seguito la città ebbe un suo percorso evolutivo caratterizzato dalla mancanza di edifici e piani regolatori  (le strade essendo più o meno quelle realizzate nel Medioevo) fatto salvo l'intervento settecentesco sul porto e la deviazione di un fiume che, circondando la città periodicamente l'alluvionava. Ravenna si è mantenuta sempre un nucleo  di modesta entità, tale che fino alla Seconda Guerra Mondiale la periferia al di fuori delle vecchie mura perimetrali  (che pur essendo medievali sorgono sulla pianta delle precedenti romane, poi bizantine) era limitata a poche strade, e gli abitanti assommavano a circa 20mila, contro i 130mila odierni. I palazzi edificati dai Rasponi sono ancora oggi i palazzi più belli di Ravenna; e ve n'erano ancora tanti: quello demolito nel 1922 dove ora sorge il palazzo della Provincia quello bellissimo e vasto che venne demolito per far posto alla Casa del Fascio; e v'era quello del feroce Gerolamo Rasponi, che sterminò un'intera famiglia, fatto demolire nel 1576 per punizione del misfatto. In tutto il periodo tra i sec. XVI e XIX vengono costruiti diversi begli edifici privati, ma nessuno (ad esclusione dei monasteri) che abbia la medesima monumentalità tranne palazzo Corradini, oggi sede universitaria, e palazzo Spreti. I rami della famiglia Rasponi sono diversi (se ne contano almeno quattro principali, tutti aventi come capostipite un tal Raspone  oriundo sassone arrivato attorno al 1050). Nel 1828 Luisa, figlia del Re di Napoli Gioacchino Murat,  andò sposa a Giulio Rasponi e da allora quel ramo si chiamò appunto Rasponi-Murat; abitarono nel grande palazzo che da essi prese il nome, nel quale, al piano nobile, si conserva a tutt'oggi l'appartamento che l'ultima discendente, Eugenia Rasponi (1873-1958), lasciò completamente arredato, tanto che viene conservato come un museo, e su richieste particolari è possibile visitarlo. Augusta Rasponi appartiene  al ramo che nel XVIII sec. si unì; alla nobile famiglia del Sale, discesa in Italia con Carlo Magno, di cui viene ricordata Benedetta, moglie di Guidarello Guidarelli, bellissimo uomo d'arme ucciso da Cesare Borgia, il cui monumento funebre è uno dei più celebri d'Italia. Come d'uso, estinguendosi la famiglia del Sale con l'ultima erede femmina, questa unì il suo cognome a quello del marito, dando origine al ramo Rasponi del Sale. Palazzo del Sale era detto l'edificio sito in piazza del Popolo e facente angolo con via XIII Giugno, passato in seguito ai Rasponi del Sale e riedificato completamente nel 1770, che sin dalla metà del XIX sec. passò in altre mani (oggi sede di una banca).

Il Personaggio: Augusta Rasponi (in arte Gugù) Illustratrice e scrittrice.
Le viene dedicato il parco l’8 Ottobre del 2008 sulla via sempre a lei dedicata A. Rasponi e messa in posa la targa (dedicata alla persona e all’opera della Contessa Augusta Rasponi del Sale “Gugù”)
Augusta Rasponi appartiene ad una delle famiglie ravennati aristocratiche  più; note, quella dei Rasponi, la cui origine si fa risalire al IX secolo. Nasce il 16 novembre 1864, figlia unica del conte Lucio e di Amelina Campana, figlia del Presidente del Tribunale di Bologna. Il padre; assai colto, si diletta di poesia, buon conversatore; fa parte dei buoni circoli; in gioventù ha parteggiato per Garibaldi, ma fa il consigliere comunale.  Augusta viene istruita in casa, come usava all'epoca, ma di pronta intelligenza la fa diventare assai colta nelle lettere classiche ed inoltre parla perfettamente francese e inglese. Come il suo rango prescrive, viene accompagnata a Roma per far parte del seguito di damigelle della Regina Margherita, ma la cosa non le piace, anzi, la corte aumenta incredibilmente la sua timidezza; a nulla valgono le parole della sua amica, la contessa Maria Pasolini, di qualche anno maggiore: Augusta ritorna a Ravenna. Non molto curata nel vestire, non le interessano i pizzi: lei ama i bambini. Nessuno è mai riuscito a capire per quale motivo non si sia sposata, ma da vaghi accenni si comprende che fosse di salute incerta ma soprattutto che lei stessa ritenesse di avere una salute assai malferma. I bambini occupano tutti i suoi pensieri. Incomincia verso i vent'anni a disegnarli, nelle loro espressioni vere, nei loro atteggiamenti di giuoco e di birichinate. I disegni di Gugù; (così prende a firmarsi) mostrano com'ella li osservi bene, come riproduca i dettagli e le espressioni, anche con pochi tratti di penna. Più tardi si firma con un'oca (io sono un'ochetta; diceva) e sempre pone l'oca al centro del disegno formato da bambini: è il suo eterno desiderio. Da un certo punto in poi, utilizza l'oca per firmare anche i semplici biglietti di comunicazione con i conoscenti. E' con la Grande Guerra che Augusta si dedica fattivamente al soccorso dei bambini bisognosi; raccoglie gli orfani e i malatini e li accompagna nei centri di assistenza, soprattutto nei sanatori, tutto a sue spese; e anche dopo la guerra non cessa di occuparsi dei bambini bisognosi. Nel 1916, alla morte del padre (la madre muore nel 1918 di, si trasferisce in una più modesta abitazione: a poco a poco vende i beni di famiglia per aiutare i poveri e i bambini orfani, tanto che muore quasi povera, il giorno 11 ottobre 1942. Nel 1938, su interessamento di alcuni concittadini, le viene assegnato il Premio della Bontà; Motta, che la mette in non poco imbarazzo, ma tuttavia le consente di fare ancora delle opere di carità Disegna da sempre; alle amiche, ai conoscenti, alle mamme dei neonati che va a visitare, consegna deliziosi biglietti augurali, oppure calendarietti, o schizzi, qualunque produzione a penna, matita, acquerello. Nel 1898 esegue un Calendario di Gugù che viene riprodotto dalle Arti Grafiche di Bergamo e viene subito notata e chiamata ad illustrare libri per l'infanzia. Inizia a collaborare con il Corriere dei Piccoli dal 1909 al 1910; al Giornalino della Domenica dal 1909 al 1911; alla rivista Italia nel 1912. Viene contattata da Hachette per cui cura le illustrazioni di una serie di favole. Anche in Inghilterra le commissionano alcune illustrazioni. Oltre ai calendarietti e alle cartoline postali, tra le sue produzioni si annoverano un originale mazzo di carte da giuoco a misura di bambino, un abbecedario, le illustrazioni per le rime di Lina Schwarz; e un singolare manuale di puericultura, intitolato, Le rosee pagine di Gugù un libriccino piccino, in cui ogni consiglio alle mamme viene opportunamente illustrato. Nel 1914 scrive addirittura La mia statistica, piccolo studio sull'allevamento del bambini, dove propugna concetti di cui oggi sembra superfluo parlare, ma che all'epoca erano rivoluzionari. In esso Augusta Rasponi dice di come una cattiva balia possa rovinare un piccino, suggerendo che in mancanza di latte materno si possa usare il poppatoio, ed insegna come prepararlo e maneggiarlo; era fortemente contraria al baliatico perché; osservava come la necessità spingesse qualunque donna, in genere del contado, a proporsi come balia, anche quelle meno adatte, o quelle malate, e che se la balia non abitava in casa (cosa che si potevano permettere solo i signori), le occupazioni giornaliere facevano che trascurasse alquanto i bambini a lei affidati. Si concentra sul concetto di igiene e di pulizia; si raccomanda di eliminare la stretta fasciatura del neonato, all'epoca ancora in uso. Elabora i dati relativi a quattromila casi di bambini da lei osservati, realizzando un'opera pionieristica.

Palazzo della Prefettura


ll Palazzo del Governo è il più importante edificio pubblico di Ravenna non solo in quanto sede degli uffici e dell'abitazione del Prefetto (la più alta autorità dello Stato nell'ambito della Provincia) ma anche per la sua lunga storia e per la sua architettura.

La facciata occupa i due terzi del lato sud di Piazza del Popolo: è costituita da un piano terra con muro a scarpa in mattoni a vista coronato da una modanatura a toro (a sezione semicircolare) in pietra d'Istria e da due piani intonacati, scanditi da fasce marcapiano e marcadavanzale, sormontati da un attico cieco.
L'architettura austera, per un edificio che potremmo definire tardo barocco, connota la funzione del Palazzo quale sede del potere e della giustizia. 
La pianta allungata del corpo rappresentativo, la cui unica licenziosità è il portale barocco lo rendono similare ai modelli romani, per esempio al palazzo del Quirinale e soprattutto al Palazzo Farnese. Questi elementi farebbero supporre la presenza di un progettista romano, forse Francesco Fontana già presente a Ravenna per la realizzazione della chiesa di S. Maria dei Suffragi edificata tra 1701 il 1714 e del Palazzo Spreti attuale "casa del popolo".
Nella Biblioteca Corsini, a Roma, è conservato un progetto anonimo che illustra come il Palazzo avrebbe dovuto essere ancora più esteso, proseguendo fin sopra tutta la loggia del Palazzo Veneziano.


Tra i pochi elementi rimasti del Palazzo prima del rifacimento barocco si conoscono tre mensole scolpite con putto del'400 che sono murate, tra i vari reperti lapidei, nel chiostro di San Vitale.


Nel 1859 il Palazzo divenne la sede del Commissario Straordinario della Provincia che dal 1863 assumerà il titolo di Prefetto, le stanze di rappresentanza e il suo alloggio corrispondono al piano nobile situato al secondo piano.


Palazzo Apostolico, Palazzo del Cardinale Legato,


Palazzo del Governo


di Ardia Marzetti



1295 - Nel 200 nacque il Comune di Ravenna con la famiglia Traversari, la prima sede comunale divenne il Palazzo Arcivescovile. Tra il 1280 e il 1288 il Comune si insediò nella Piazza Maggiore (odierna Piazza del Popolo) seguito nel 1295 dal rappresentante del Papa. Da queste brevi notizie si desume la data di origine (1295) del palazzo Apostolico, il quale sorse nel lato sud della Piazza, occupato dall'attuale Palazzo del Governo.

1303 - Nel 1303 alla famiglia Traversari subentrò quella dei Da Polenta, signoria che lasciò un segno nella storia anche per avere ospitato fino alla morte il poeta Dante Alighieri.

1441 - Dopo una serie di eventi che si tralascia di citare, Ravenna passò dalla signoria dei Da Polenta al dominio della Repubblica di Venezia nel 1441. I Veneziani trovarono una città in decadenza, il loro dominio coincise con gli interessi della città per la quale avviarono un programma di sviluppo edilizio e commerciale.

1444 - La città era governata da un Podestà per il quale fu eretto nel 1444 il palazzo cosiddetto veneziano (attuale Palazzo Comunale) di fianco al Palazzo Apostolico del quale non abbiamo più notizie fino all'avvento del passaggio dal dominio veneziano a quello di Papa Giulio II.

1529 - Nel 1509 la Serenissima cedette i suoi domini in Romagna allo Stato Pontificio, ma solo dal 1529 si ebbe l'insediamento stabile in città del cardinale Legato, il rappresentante del Papa con funzioni di giudice. Essendo inagibile il Palazzo Apostolico, il Cardinale risiedeva nell'abazia di Classe o in quella di Porto.

1544 - I restauri iniziarono nel 1544. Il palazzo fu poi ingrandito nel 1557 dal Cardinale Cesi inglobando la Chiesa di Sant'Agata in Mercato (alle quale probabilmente appartengono le due colonne ioniche oggi visibili nel primo ufficio della Prefettura al piano terra a destra dell'androne (l'attuale ufficio polifunzionale) e parte del Palazzo Veneziano

1688 - Nel 1688 a Ravenna ci fu un disastroso terremoto che fece crollare anche il campanile della Chiesa di San Vitale e provocò danni al Palazzo. Non conosciamo l'aspetto cinquecentesco del Palazzo allora detto Legatizio; sappiamo che fu quasi completamente ricostruito nel 1694 dal Cardinale Barberini. Una lapide murata all'interno del cortile ce lo conferma. Una delle immagini più antiche che raffigura il Palazzo è del Coronelli e risale alla fine del '600. In questa immagine il Palazzo prospicente sulla piazza è costituito da due facciate, una delle quali monumentale con muro a scarpa, cornici, portale e attico con finestre ovali; queste ultime sono scomparse mentre nell'insieme la figura corrisponde a quella odierna. Dal disegno risulta inoltre una porta a sinistra del portale (oggi scomparsa) quale ingresso della Chiesa di San Giovanni Decollato del 1572, inglobata nel rifacimento del 1694.
Il complesso del Palazzo Legatizio, che occupava quasi un intero isolato, ospitava non solo la sede del cardinale Legato e gli uffici amministravi ma anche l'alloggio del suo vice nella parte meno ricca (come appare nel disegno del Coronelli. Nella parte retrostante vi erano gli alloggi delle guardie e le carceri; le esecuzioni capitali avvenivano generalmente nella piazza per impiccagione o decapitazione come si desume dai registri comunali del XVI secolo.


1754 - In una planimetria della Piazza Maggiore del 1754 è indicata la Chiesa della Buona Morte (La chiesa di San Giovanni Decollato ex Chiesa di San Giovanni in marmorato fu edificata nel 1572 e profanata nel 1798) la cui confraternita si occupava dei condannati alla pena capitale, accompagnandoli al patibolo ed alla sepoltura.

1791 - Di questo ambiente e della sua funzione non ci sono tracce visibili. Il palazzo fu ristrutturato nel 1791 dall'architetto Cosimo Morelli, il quale unificò la facciata estendendo quella monumentale del 1694 anche all'ala che era riservata al Vice. Sistemò gli interni e realizzò i due scaloni, uno di servizio a destra dell'androne e quello monumentale sul lato opposto.

1907 - Gaetano Savini nel 1907 ci lascia la seguente descrizione: "nell'atrio, a destra e a sinistra, vi sono deu scale ... la scala di sinistra .. conduce alla Prefettura ... benché di marmo non abbia che le pedane ... presenta l'aspetto di scalone nobile; è decorato con colonne ioniche e balaustre, il tutto di cotto verniciato, e sei statue di scagliola lucida allusive alla scienza, giustizia, ecc. fra le quali Minerva, posta in una nicchia ... fronteggia lo scalone.. Di questo scalone neoclassico, ornato da una balaustra con colonne ioniche binate, rimangono solo il ricordo e le statue.
Sempre da Gaetano Savini sappiamo che: "Due anni or sono si è restaurata la facciata del Palazzo Prefettizio, è stata rifatta la scarpata con mattoni scoperti; prima era intonacata e aveva un zoccoletto a piombo, con spigolo di sasso d'Istria ricorrente per tutta la lunghezza."


1927 - Nel 1927 fu realizzato il Palazzo delle Poste e quasi contemporaneamente fu elaborato un interessante progetto per una galleria coperta commerciale tipo la galleria Vittorio Emanuele di Milano. Tale progetto prevedeva di collegare la Piazza Maggiore con Via Mariani riqualificando l'antico cortile delle carceri che attende ancora, oggi, di essere sistemato. 

Palazzo del Comune


Il vecchio palazzo comunale venne ricostruito con l'insediamento del primo podestà veneziano, Vittore Delfino, e in seguito amato con stemmi, balconcino in pietra e ghiere in terracotta negli archi. A delimitare la piazza verso il Padenna, come a Venezia la Piazzetta San Marco verso la laguna, furono erette nel 1483 le due colonne. Su quella più vicina al palazzo, fu collocato un leone di San Marco; sull'altra, la statua del patrono, Sant'Apollinare. 

Il lato opposto della piazza venne scenograficamente concluso con le facciate della chiesa di San Marco e della chiesa di San Sebastiano, oggi scomparse, e sopra quest'ultima venne posto il primo orologio. Così la piazza divenne lo spazio che riassumeva e rifletteva i caratteri della presenza della dominante e il suo potere. 

Dal 1509, quando il pontefice Giulio II prese possesso della città, dopo la sconfitta dei Veneziani alla Ghiara d'Adda, le insegne della Serenissima sparirono dalla piazza: il leone sulla colonna fu sostituito dal patrono, e al suo fianco sarebbe poi comparsa la statua di San Vitale. 

Il palazzo comunale si ampliò, nella nuova ala eretta sui terreni resi disponibili dalla tombinatura del Padenna (già attuata dalle autorità veneziane). Ornandosi di merli nel XIX secolo, assumerà il ruolo di protagonista tra i palazzi che delimitano la piazza: quello imponente del legato apostolico, rimasto tuttora palazzo del governo; e quello di fronte, eretto con leggiadria settecentesca dai Rasponi dal Sale, uno dei rami della più potente famiglia dell' oligarchia aristocratica d' età pontificia. 

La piazza, chiamata Piazza del Comune o Piazza Maggiore nei documenti d'età moderna, venne intitolata a Vittorio Emanuele II dopo la proclamazione del Regno d'Italia. Assumerà l'attuale denominazione dopo il referendum istituzionale del 1946, quando a Ravenna oltre 1'88% dei votanti, la più alta percentuale in Italia, preferirà la repubblica alla monarchia. 
Sul luogo ora occupato dal palazzo un tempo scorreva il Padenna; poi sappiamo esservi stata una casa di Bernardino da Polenta, unita a diverse casupole. Nel 1681 vi si costruì, infine, il palazzo che, attraverso vari lavori di ampliamento, assunse nel 1761 la mole e, via via, l’aspetto attuale. Sei pilastri ottagonali con marmi provenienti da Santa Maria Maggiore e due, rettangolari, alle estremità, sostengono gli archi, due dei quali a sesto acuto. AI primo piano ci sono cinque finestre ed un ampio balcone, più in alto cinque tondi finestrati. La merlatura, falso medioevale, e stata apposta nel 1857 per nascondere il tetto, in occasione della venuta a Ravenna di Pio IX.
Ad uno del pilastri del portico è addossata una fontanella del 1870. AI pilastro accanto è addossata une specie di edicola con i fianchi ornati da belle candeliere in bassorilievo del XVI secolo, sormontate da una pigna in marmo. Le volte del passaggio coperto che unisce piazza del Popolo e piazza XX Settembre (Piazza dell’Aquila) è stata decorata de Gaetano Savini nel 1873 con motivi ornamentali e medaglioni raffiguranti illustri ravennati e alcuni monumenti e espetti della città. Le due piazze sono congiunte da un passaggio della fine del XV secolo. La scala situata sotto il portico di accesso al palazzo, le semicolonne e  la pigna risalgono al 1411, mentre il cancello è del Bellotto (1921).  In cima alla scala, a destra, sono scolpiti i modelli delle misure pubbliche (opera di Giacomo Bellabarba 1625), in sasso d’Istria.  Le misure sono così indicate: Misure ruote: GAVALO MAGGIORE - GAVALO MEZZANO – GAVALETTO.
Elementi dei lavori in muratura: MATTONE – COPPO – TAVELLA.
Lunghezze: BRAZZO – PIEDE AGRIMENSORIO (decima parte della pertica ravennate)
Per misurare i legnami: PIEDE DA MANO (P. DA MARANO)
Per la legna da ardere grossa che veniva dai carri: MISURA DEL CARRO DE ZOCCHI

La volta della sala del consiglio comunale, fu dipinta da Savini nel 1882. Mentre Alessandro Guardassoni è l’autore delle figure allegoriche dedicate alle scienze, l’industria e il commercio. I Busti alla parete raffigurano Garibaldi Giuseppe, Mazzini Giuseppe, Farini Luigi Carlo, Vittorio Emanuele II, Gioacchino Rasponi e Alfredo Baccarini.

Palazzo Veneziano


Detto Palazzetto Veneziano, fa da cornive ad un lato della Piazza del Popolo.
Dopo varie vicissitudini edilizie, costruzioni e ricostruzioni, deve il suo aspetto attuale ai lavori ed interventi eseguiti nei primi decenni del possesso veneziano della città (seconda metà del XV secolo). I lavori non cesarono neanche dopo il ritorno a Ravenna della santa sede, che pensò a concluderli. Sorge nella tradizionale zona comunale, poichè anche negli edifici che lo precedettero erano uffici del podestà, sin dal 1288. 
Il palazzo veneziano non comprende il voltone, che fu costruito poco prima del 1534, dal quale si passa in via carioli e che è formato da un'arco ribassato molto ampio, sopra una bifora coronata da una merlatura. Comprende però i 5 archi con l'archivolto in terracotta, ornato. Sopra ci troviamo 3 belle bifore, un balconcino e due tondi. Per la costruzione del palezzetto furono messe in opera 8 colonne di granito e capitelli di epoca teodoricana (1493-526). Il primo capitello a sinistra (guardando la facciata dalla piazza)  è del tipo composito con acanto finemente dentellato. Gli altri capitelli invece sono composti con figure di foglie d'acanto mosse dal vento (del tipo a farfalla). Quattro di essi recano il monogramma di Teodorico molto ben visibile (es.l'ultimo a destra). Le colonne ed i capitelli proverrebbero dalla chiesa di Sant'Andrea dei Goti, costruita all'epoca di Teodorico, abbattuta poi dai veneziani nel 1457 per riutilizzarne il materiale per la costruzione della Rocca Brancaleone.

Colonne Veneziane


Le due colonne furono erette dai veneziani nel 1483 con il basamento a gradoni scolpiti da Pietro Lombardo (padre di Tullio, autore della statua del Guidarello).
Fonte, la stessa iscrizione: OPUS PETRI LOMBARDI 1483. I bassorilievi recano disegni ornamentali, di cui particolarmente  fini sono quelli del gradone di mezzo, e i 12 segni dello zodiaco nel gradone superiore della colonna nord. Nel riquadro che si trova sotto la data 1483 di questa colonna e riprodotto il Colosso di Ercole Orario, chiamato dai ravennati Conchincollo. Era una grande statua che si trovava presso la basilica romana di Ercole. Rappresentava il semidio con un ginocchio a terra che sosteneva sul capo un quadrante sotto forma di semisfera incavata sopra la quale era lo stilo da cui si dipartivano le linee orarie. Si trattava di un orologio solare e lunare. La statua crollo e si spezzò nel 1591 a causa di un terremoto e alcuni marmi del basamento furono utilizzati per la base della colonna ora in piazza dell‘Aquila, mentre la statua in pezzi fu donata ad un architetto i cui eredi la disfecero per altri usi. Un piede della statua è conservato al Museo Nazionale.
Sulle due colonne in origine furono le statue di Sant’Apollinare (a nord), e del Leone di San Marco (a sud). Il leone fu tolto nel 1509 alla fine del dominio veneziano. Nel 1644, la statua di Sant’Apollinare fu spostata sulla colonna sud, ed in quella a nord fu posta una statua di San Vitale, opera di Clemente Molli. Su quest’ultima colonna fu incisa, nel 1793, una meridiana. Oggi giorno le colonne sono recintate da un recente cancello in ferro, per tutelarlo dall’usura. Prima infatti, sui gradoni delle basi si sedevano parecchi turisti e giovani ravennati.

Approfondimenti:
IL TEMPO A RAVENNA
di Franco Gabici
Gli orologi solari appartengono all'era del silenzio. Soppiantati dai congegni meccanici, che dando una voce al tempo regalavano anche l'illusione di poterlo in qualche modo dominare, sono oggi considerati reperti di un passato che non ritorna, romantici strumenti che scandivano un tempo fatto di ritmi senza fretta.
L'ombra scivolava lenta e silenziosa sul quadrante come una carezza leggera, e sembrava quasi che il tempo scorresse senza ferire. Ma anche quell'ombra impalpabile che ci poneva di fronte allo scorrere degli eventi costituiva già il primo segno di un complesso rapporto col tempo, che da categoria astratta si trasformava in qualcosa di concreto che coinvolgeva direttamente la nostra quotidianità. Dietro alla poesia dell'ombra, dunque, erano in nuce i malesseri dell'epoca moderna, che ha soppiantato gli orologi solari a favore di altri congegni che misurano il tempo e le nostre frette.
Probabilmente il primo a intuire qualcosa di fastidioso dietro alla poesia degli orologi solari è stato un romagnolo, il commediografo e scrittore Tito Maccio Plauto, che mise in bocca a un suo personaggio una significativa invettiva contro il tempo. Il soldato, infatti, si scaglia contro l'orologio solare installato a Roma considerandolo un pericoloso “cavallo di Troia” che sarebbe penetrato subdolamente nella sua vita, tiranneggiandolo e rendendolo schiavo. Tutto questo accadeva nel II secolo a.C., ma l'invettiva del soldato romano ha la attualità del presente:
Che gli dei smascherino il primo
che ha inventato la divisione delle ore,
il primo che ha messo in questa città un orologio solare.
Per nostra sfortuna, ci ha tagliato il giorno a fette.
Durante la mia infanzia non esistevano
orologi all'infuori della mia pancia.
Era per me l'orologio migliore, il più esatto;
quando si faceva sentire, si mangiava,
a meno che non ci fosse niente da mangiare.
Adesso, anche se c'è abbondanza di cibo,
si mangia solo quando piace al Sole.
La città è piena di orologi solari,
ma quasi tutti gli abitanti si trascinano
mezzi morti di fame.
Se il soldato di Plauto non vedeva di buon occhio l'orologio solare, altri si misero invece a costruirne perché, d'accordo, il tempo è tiranno, ma la sua misura resta pur sempre una necessità.
A Ravenna esistono pochi esempi di orologi solari, quasi tutti risalenti a tempi recenti. Un solo frammento marmoreo, del I secolo, testimonia l'esistenza in città di uno spettacolare orologio solare, l'Ercole orario (o Conchincollo come lo chiamavano i ravennati), del quale resta oggi solamente un frammento (un piede e parte della gamba)conservato al Museo Nazionale. Si trattava di un complesso di circa cinque metri di altezza raffigurante un Ercole inginocchiato che reggeva sulla spalla una conchiglia all'interno della quale era disegnato un quadrante solare. La statua, voluta dall'imperatore Tiberio Claudio Germanico, ebbe diverse vicende e trovò definitiva sistemazione nel Foro Asinario (attuale Piazzetta dell'Aquila), fino a quando il 18 giugno 1591 un terremoto non la mandò in frantumi. Si diceva che l'Ercole orario segnasse anche le ore durante le notti di luna, ma uno studio accurato del monumento ha portato a escludere questa possibilità.
Per trovare altri segni di orologi solari occorre arrivare al VI secolo quando Boezio, alla corte di Teodorico, fabbricò un orologio solare e uno ad acqua per volere del re goto. Gli orologi, come scrive Cassiodoro, sarebbero stati regalati a Gondebaldo III, re di Borgogna.
Alla fine dell'anno Mille è arcivescovo di Ravenna il geniale monaco francese Gerberto di Aurillac, i cui interessi scientifici lo portarono a costruire anche orologi solari. Si ha notizia che nel 998 Gerberto costruisse un orologio solare per l'imperatore Ottone III utilizzando l'osservazione della stella polare per mezzo di un tubo senza lenti, procedimento forse nuovo a quei tempi:
A finibibus suis expulsus, Ottonem petiit imperatorem et cum eo diu conversatur in Magdeburg, horologium fecit, considerata per fistulam quadam stella nautarum duce.
La realizzazione del primo orologio meccanico pubblico ravennate si deve ai Polentani, che governarono la città per molti anni adottando tutto ciò che avrebbe potuto metterla all'avanguardia. Secondo il Bernicoli è assai probabile che Guido da Polenta rimanesse colpito dall'orologio meccanico di Bologna in occasione di una sua visita alla città insieme all'arcivescovo Pileo. Non è da escludere che si trattasse dell'orologio realizzato dal Dondi e inaugurato il 19 maggio 1356.
Prima di questa data non esistevano a Ravenna orologi meccanici, come può dedursi da una relazione del cardinale Anglico nella quale sono registrate le spese per il custode dell'orologio di Faenza, Forlì e Cesena. Per Ravenna, dunque, non è prevista la spesa per il custode dell'orologio, a dimostrazione che in città non esistono orologi meccanici.
Ci fu anche una colletta (o tassa speciale) per la costruzione di un orologio che fruttò 335 lire, 10 soldi e 6 denari. Una bella somma per quei tempi in cui, ricorda Bernicoli, con 20 lire si poteva acquistare un bue. La tassa, inoltre, risultò “obbedientemente pagata”, a dimostrazione che i ravennati tenevano moltissimo ad avere a disposizione una macchina per misurare il tempo.
Anche in età veneziana esisteva un orologio pubblico, come attesta un documento del 17 settembre 1462 dove si fa menzione del “cortile dell'orologio”.
Altri documenti dal 1396 al 1405 ricordano spesso “Rigono del fu Dino dei Cattani di Bagnacavallo”, abitante a Ravenna, e ricordato come Magister Rigo a relogio.
Il 7 marzo del 1510 il Maggior Consiglio affida ad Anastasio Cellini la costruzione di un nuovo orologio da sistemare nella facciata di San Sebastiano e San Marco, una chiesa che risale al XV secolo e la cui facciata fu ristrutturata da Camillo Morigia nel 1785 su incarico del cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga.
Installato per “demostrare le hore de hora in hora iustamente”, l'orologio avrebbe sbalordito i ravennati perché non si trattava di un semplice meccanismo per segnare le ore. Esisteva anche un quadrante per indicare i giorni e un cerchio con lo Zodiaco azionato da un meccanismo che avrebbe indicato il giorno, il mese e il “segno zodiacale” corrispondente. Un altro “circolo” indicava invece le eclissi di Sole e di Luna. Completava il tutto la raffigurazione di alcune stelle fisse disegnate da Luca Longhi, che per questo lavoro percepì 6 scudi d'oro. Sull'orologio era possibile leggere anche il numero d'oro, l'epatta e la lettera domenicale.
Prima di ogni ora, una statuetta di Sant'Apollinare usciva da una nicchia e benediceva quanti stavano ad osservarlo.
Sotto al quadrante, in una nicchia, fu collocato una “Madonna col Bambino”, un bassorilievo che ben presto i ravennati chiamarono la “Madonna dell'Orologio”.
L'orologio, però, non fu pienamente realizzato in tutte le sue parti e in un documento è ricordato che Cellini nel 1512 ancora non aveva completato lo Zodiaco. Sul quadrante, in sasso d'Istria, sono incise le 24 ore del giorno. Il quadrante, diviso in due parti, è visibile ancora oggi nel cortile pensile del Palazzo della Provincia, allora palazzo Cristino Rasponi, dove fu trasferito nel 1784 dopo la demolizione della facciata e della torre della chiesa.
L'orologio, pur passando attraverso diversi restauri, funzionò fino al 1726, quando Cornelio Bentivoglio fece costruire un nuovo orologio al quale applicò il meccanismo del pendolo.
Col tempo lo stato della facciata e il conseguente restauro del Morigia portò al rinnovo dell'orologio, che nel 1784 venne collocato sulla torretta della facciata, e dunque in una posizione più alta rispetto agli altri che in precedenza erano stati sistemati sulla facciata.
a costruzione del nuovo orologio è affidata al bolognese Cristino Fornasini, mentre l'armatura di ferro per sorreggere le campane è opera del ravennate Francesco Garavini. Le campane furono fuse da Carlo Ruffini di Reggio, che in precedenza aveva fuso le campane di San Domenico. Il nuovo quadrante è illuminato a gas e viene inaugurato il 23 giugno 1884, ma la nuova macchina non soddisfa i ravennati. Le “frecce”, infatti, sono troppo sottili e ad una certa distanza è praticamente impossibile leggere l'ora. L'orologio, inoltre, suona troppo in fretta rispetto a quello vecchio e dal momento che funziona male il cronista suggerisce al Comune di non pagare chi ha installato l'orologio.
I ravennati, purtroppo, sembrano abituati al cattivo funzionamento dell'orologio pubblico e già nella seconda metà dell'Ottocento il Ravennate denuncia le sfere ferme anche per più di un giorno, provocando non pochi disagi: “Il vedere le sfere fermate per più d'un giorno, non solo, ma soggetto bensì nella stagione invernale a ritardare di non pochi minuti, ci porge occasione di dimostrare che un oggetto di tanta importanza viene trascurato o per parte del custode, o perché realmente guasto, ed in questo caso preghiamo chi spetta perché proveggasi a simile inconveniente”. Inoltre si auspica anche un orologio per vedere le ore anche di notte: “Preghiamo il Municipio d'attuare un orologio notturno, per discernere le ore in tempo di oscurità, come si è usato in molti paesi”.
In questo periodo il cardinale Chiarissimo Falconieri commissiona al ravennate Filippo Mazzotti la costruzione di un “grande orologio a scappamento ad àncora con una sola soneria per le ore e li quarti costrutta sopra un nuovo sistema; con scampanio a due campane scoccato appena il mezzodì e la mezzanotte, e con un macchinismo per segnare i giorni del mese”. L'orologio sarà sistemato nella torretta del palazzo dell'Arcivescovado.
La meccanica, però, non avrebbe sostituito la poesia, e l'ombra delle gnomone riuscirà ancora a farsi strada anche in mezzo ai nuovi congegni, tant'è che il poetico “orologio solare” sembra essere ancora in grado di dare una mano ai moderni meccanismi i quali, per la verità, non sembrano ancora offrire garanzie di precisione. Meglio, dunque, fidarsi del Sole, come si deduce da queste considerazioni di un cronista che nel settembre del 1866 sottolineano i difetti del pubblico orologio meccanico: “L'orologio pubblico della nostra città, forse perché consunto dalla vecchiaia, sembra per sé incapace di segnare colla necessaria precisione il tempo. A questo difetto però si potrebbe in gran parte ovviare, quando il custode avesse qualche sicura norma onde tenerlo registrato a dovere; al che basterebbe una buona meridiana”.
Nella piazza davanti all'orologio la meridiana esiste già, disegnata dai veneziani sulla colonna nord della Piazza, “ma questa non può servire all'uopo, perché, secondo le osservazioni degli intelligenti, essa è difettosa”. E in effetti l'articolista invita i ravennati a verificare di persona il mal funzionamento della meridiana soprattutto nei quattro periodi principali dell'anno (i due solstizi e i due equinozi).
Si invita pertanto il Comune a provvedere alla soluzione di questo inconveniente “facendo correggere la vecchia meridiana, il che potrebbesi effettuare allorché si darà mano a stabilire l'altra colonna a perpendicolo sulla base, o meglio facendo tracciare un Orologio solare completo in qualche parte della pubblica piazza. In questo caso, ci sia concesso di esternare un altro voto; cioè che il nuovo Orologio solare venga costruito in modo da segnare mezzogiorno tanto a tempo vero, quanto a tempo medio, affinché, seguendo l'esempio di molte altre città, il pubblico Orologio meccanico venga registrato a tempo medio, e serva così di norma sicura per calcolare l'ora delle corse sulla ferrovia”.
Evidentemente il problema della misura esatta del tempo interessa tutta la città, e alcuni giorni dopo il problema ritorna ad essere trattato sulle colonne del Ravennate. Il restauro della meridiana della colonna comporterebbe non poche difficoltà e un notevole costo e pertanto si suggerisce di costruire una nuova meridiana in un luogo più opportuno che dia maggiori garanzie per il funzionamento dell'orologio meccanico: “Quindi a rendere la cosa più facile ed economica il sito più opportuno a tracciare una nuova meridiana sarebbe in una parte del muro ottagonale della chiesa del Suffragio, e precisamente su quella che guarda alla piazza sopra all'angolo di detta chiesa. In quella posizione s'avrebbero due vantaggi che certo non si presentano nella vecchia meridiana. Primo che in qualunque parte della piazza la nuova meridiana sarebbe da tutti veduta, essendo quello spazio, su cui sarebbe delineata, abbastanza grande per renderla ostensibile anche in grande distanza; secondo che sarebbe comodissima a colui il quale regola l'orologio comunale, perché nel punto di mezzo giorno senza perdere un minuto secondo non avrebbe che a guardare all'indice della meridiana per regolare il suddetto orologio”.
Il progetto della costruzione di un orologio solare sulla cupola del Suffragio non va però a buon fine, ma poco più di dieci anni dopo viene deliberata dal Consiglio comunale la costruzione di una meridiana a tempo medio di Roma e nell'agosto successivo la realizzazione viene affidata al ravennate Giovanni Zaffi Gardella: “Apprendiamo con piacere essere il nostro concittadino Giovanni Zaffi Gardella di delineare per commissione di questo Municipio della Meridiana a tempo medio di Roma nella Piazza Garibaldi”.
A Ravenna il tempo sembra non volerne sapere di rigare dritto, ed è sempre il Ravennate a denunciare un orologio che “segna e batte le ore a modo suo” e di fronte a questo mal funzionamento la gente non sa se prendersela con la macchina o con chi è addetto alla sua regolazione. Il mal funzionamento dell'orologio è notato da abbastanza tempo, se già i ravennati riuscirono a preparare anche una filastrocca per esprimere il loro disappunto:
È fermo? È guasto? Oppur l'hanno venduto?
Quel coso che dicevasi orologio
Perché non segna più? Non suona l'ore?
O se le suona, va da palo in frasca,
E sembra un vecchio ch'abbia il mal umore?
I ravennati n'han già pien la tasca
Vorriano aver nel dì precise l'ore
E pregano e pregano il Padre Eterno
Che mandi presto un buono aggiustatore
E il levi dal dormire il sonno eterno.
Conclude la filastrocca un'altra lamentela: il quadrante dell'orologio viene spento troppo presto, quando è ancora buio.
Nell'estate del 1899 il mal funzionamento dell'orologio pubblico sta diventando una caratteristica della città: “È tradizionale che l'orologio di piazza debba andar male anziché bene” e la constatazione è accompagnata dalla notizia che cinque o sei persone che si erano fidate dell'orologio pubblico persero il treno!
Anche la stazione ferroviaria ha il proprio orologio, ma all'inizio del Novecento si nota che fra l'orologio della stazione e quello della pubblica piazza c'è uno sfasamento di 8 minuti e la situazione è aggravata dal fatto che nessuno è in grado di stabilire quale dei due orologi debba essere considerato esatto.
Nemmeno il nuovo secolo porta bene all'orologio della piazza, che spegne il quadrante ancora troppo presto suscitando le lamentele dei ravennati, ma soprattutto “va bene come...il tempo e come questo corre capricciosamente avanti e indietro. Anche stamane esso ha messo in confusione tutti gli altri orologi e fatta perdere la pazienza alla gente. Difatti ieri sera l'orologio è corso avanti di non pochi minuti. Ne è venuta di conseguenza che stamattina molte persone ne rimanessero giustamente sorprese. Come è evidente, il fatto non è tanto piacevole e noi ci rivolgiamo senz'altro al Comune raccomandandogli di curare un po' meglio almeno...l'andamento dell'orologio di piazza”.
Tirato in ballo nella questione, scende in campo anche Augusto Baccarini, custode dell'orologio, “rilevando che quando l'orologio pubblico si faceva camminare di pari passo con quello della stazione ferroviaria, la gente diceva essere meglio farlo avanzare di 5 o 6 minuti; ora che precede di pochi minuti il suo collega ferroviario si dice che cammina troppo. E il signor Baccarini conchiude essere molto difficile accontentare tutti... specialmente quando si tratta di orologi”.
Sembra anche che il freddo influisca sul buon funzionamento dell'orologio della piazza, che nel febbraio del 1917 risulta addirittura essere inchiodato dal freddo.
È interessante ricordare che all'inizio del Novecento qualcuno tenti di sfruttare l'orologio meccanico a scopo pubblicitario. Nell'esposizione di Milano del 1906, infatti, la ditta ravennate “Dott.Pietro Martinetti” presenta un “orologio grammofonico réclame” di oltre un metro di diametro e provvisto di due trombe che diffondono tramite un grammofono messaggi pubblicitari. L'orologio réclame è formato da ben 2414 pezzi ed è sistemato su di una colonna di ferro battuto opera di Sante Mingazzi.
Le ultime vicissitudini dell'orologio pubblico risalgono al periodo dopo la Liberazione, quando venne ripristinato un orologio con quadrante in legno perché mancava il vetro. L'orologio, però, non batteva le ore e il particolare viene ricordato dal cronista di Romagna Proletaria che suggerisce anche la soluzione al problema: “Ora che la Società Elettrica Romagnola sta distribuendo la corrente elettrica a tutta la popolazione, non si potrebbe dare la corrente al piccolo motore che alimenta la suoneria dell'orologio?”.
Oggi il tempo a Ravenna è scandito da un rinnovato orologio sulla torretta del palazzo della Banca Nazionale del Lavoro, che col suo quadrante illuminato sembra un occhio che vigila attento sul tempo dei ravennati. Le ore sono segnate da rintocchi di una campana, mentre un suono diverso annuncia i quarti.
Oggi gli orologi moderni sono silenziosi e non esiste più il caratteristico tic tac. Il progresso sembra aver cancellato il rumore del tempo, che fila via liscia proprio come l'ombra dello gnomone che attraversa il quadrante di un orologio solare. Sembra, dunque, che il silenzio accomuni l'antico e il moderno suono. E il grande complesso gnomonico sulla parete del Planetario, inserito in una città dove il rumore del progresso costituisce una incancellabile realtà pulsante, vuole in fondo insegnare che esiste una lettura silenziosa del tempo. Anche il silenzio, dunque, può avere cittadinanza in mezzo ai frastuoni dell'oggi. E il silenzio induce alla riflessione sulla stretta connessione fra il tempo e i grandi cicli della natura. Il tempo, dunque, diventa la strada maestra per penetrare i misteri della natura. Tempo come conoscenza, ma anche come rispetto per quei meccanismi naturali che oggi l'uomo non sempre rispetta.