lunedì 29 giugno 2015

La nascita di Borea il vento del Nord, e di tutto L'universo secondo i miti arcaici greci.

La nascita di Borea il vento del Nord, e di tutto L'universo secondo i miti arcaici greci.



 Eurinome, Dea di Tutte le Cose, emerse nuda dal Caos e non trovò nulla di solido per posarvi i piedi: divise allora il mare dal cielo e intrecciò sola una danza sulle onde. Sempre danzando si diresse verso sud e il vento che turbinava alle sue spalle le parve qualcosa di nuovo e di distinto; pensò dunque di iniziare con lui l’opera della creazione. Si voltò all’improvviso, afferrò codesto Vento del Nord e lo soffregò tra le mani: è così che si vide apparire il gran serpente Ofione. Eurinome danzò per scaldarsi, danzava con ritmo sempre più selvaggio finché Ofione, acceso di desiderio, avvolse nelle sue spire le membra della dea e a lei si accoppiò. Ora il Vento del Nord, detto anche Borea, è un vento fecondatore; spesso infatti le cavalle, accarezzate dal suo soffio, concepiscono puledri senza l’aiuto di uno stallone.

“In questo complesso religioso arcaico non vi erano né dèi né sacerdoti, ma soltanto una dea universale e le sue sacerdotesse; la donna infatti dominava l’uomo, sua vittima sgomenta. E poiché si pensava che la donna rimanesse incinta per le virtù fecondatrici del vento o per aver mangiato fagioli o inghiottito per caso un insetto, la paternità non veniva tenuta in nessun conto; la successione era matrilineare e si credeva che i serpenti fossero incarnazioni dei morti. Eurinome («vagante in ampi spazi») era l’appellativo della dea nella sua epifania lunare. Il suo nome sumerico era Iahu («divina colomba»), un epiteto che in seguito passò a Geova come Creatore. Fu infatti una colomba che Marduk tagliò simbolicamente in due durante le Feste babilonesi della Primavera, quando inaugurò il nuovo ordine del mondo."

E così anche Eurinome rimase incinta e subito essa, volando sul mare, prese la forma di una colomba per poi depositare l’Uovo Universale. Per ordine della dea, Ofione si arrotolò sette volte attorno all’uovo, finché questo si schiuse e ne uscirono tutte le cose esistenti, figlie di Eurinome: il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la terra con i suoi monti, con i suoi fiumi, con i suoi alberi e con le erbe e le creature viventi.
Eurinome e Ofione si stabilirono sul Monte Olimpo, ma ben presto Ofione irritò la dea perché si vantava di essere il creatore dell’Universo. Eurinome allora lo colpì alla bocca con un calcio, gli spezzò tutti i denti e lo relegò nelle buie caverne sotterranee.


“Ofione, o Borea, è il serpente Demiurgo del mito ebraico ed egiziano, e nell’arte arcaica mediterranea la dea è sempre raffigurata col serpente al suo fianco. I Pelasgi autoctoni, che pare pretendessero d’essere nati dai denti di Ofione, furono forse, in origine, il popolo delle neolitiche «Terracotte Dipinte». Passarono dalla Palestina alla Grecia continentale verso il 3500 a.C. e gli antichi portatori della civiltà elladica, emigrati dall’Asia Minore attraverso le Cicladi, li trovarono insediati nel Peloponneso settecento anni dopo. Il termine «Pelasgi» venne poi usato in senso lato per indicare tutti gli abitanti pre-ellenici della Grecia. Secondo Euripide (citato da Strabone, V 2 4) i Pelasgi adottarono il nome di Danai quando Danao con le sue cinquanta figlie giunse ad Argo. Le critiche alla loro condotta licenziosa (Erodoto, VI 137) si riferiscono probabilmente all’usanza pre-ellenica delle orge erotiche. Nel passo citato più sopra, Strabone dice che coloro che vivevano nei pressi di Atene erano noti come Pelargi («cicogne»): forse questo uccello era il loro totem.”


La dea poi creò le sette potenze planetarie e mise a capo di ciascuna di esse un Titano e una Titanessa: Tia e Iperione al Sole; Febe e Atlante alla Luna; Dione e Crio al pianeta Marte; Meti e Ceo al pianeta Mercurio; Temi ed Eurimedonte al pianeta Giove; Teti e Oceano a Venere; Rea e Crono al pianeta Saturno.

“I Titani («signori») e le Titanesse ebbero i loro corrispondenti in certe divinità dell’antica astrologia babilonese e palestinese, preposte ai sette giorni della sacra settimana planetaria; e il loro culto fu forse introdotto in Grecia da una colonia cananea, o ittita, che si stabilì sull’istmo di Corinto nel secondo millennio prima di Cristo, oppure dagli antichi portatori della civiltà elladica. Ma quando il culto dei Titani fu abolito in Grecia e la settimana di sette giorni cessò di figurare nel calendario ufficiale, certi autori elevarono il numero di tali divinità a dodici, probabilmente per farlo corrispondere ai segni dello Zodiaco.

Esiodo, Apollodoro, Stefano di Bisanzio, Pausania e altri ci presentano gli elenchi dei loro nomi, tuttavia privi di fondamento. Nella mitologia babilonese gli dèi planetari che regolavano il succedersi dei giorni della settimana, e cioè Samas, Sin, Nergal, Bel, Beltis e Ninib, erano tutti maschi salvo Beltis, dea dell’amore. Invece nella settimana germanica, nella quale i Celti avevano imitato lo schema dei popoli del Mediterraneo orientale, la domenica, il martedì e il venerdì dipendevano da Titanesse, contrapposte ai Titani. A giudicare dal rango divino dei figli e delle figlie di Edo, in numero pari questi e quelle, e dal mito di Niobe, si può supporre che, quando questo schema religioso giunse dalla Palestina nella Grecia pre-ellenica, una Titanessa fosse accoppiata a ogni Titano, quasi a salvaguardare gli interessi della dea. In seguito il numero dei Titani fu ridotto da quattordici a un gruppo di sette d’ambo i sessi. Le potenze planetarie erano le seguenti: il Sole che presiedeva alla luce; la Luna che presiedeva agli incantesimi; Marte, alla crescita; Mercurio, alla saggezza; Giove, alla legge; Venere, all’amore; Saturno, alla pace. Gli astrologi greci dell’epoca classica seguirono lo schema dei Babilonesi e aggiudicarono i pianeti a Elio, Selene, Ares, Ermete (o Apollo). Zeus, Afrodite, Crono; dai loro equivalenti latini, citati più sopra, derivano i nomi dei giorni della settimana in Francia, Italia e Spagna.”


Il primo uomo fu Pelasgo, capostipite dei Pelasgi; egli emerse dal suolo d’Arcadia, subito seguìto da altri uomini ai quali Pelasgo insegnò come fabbricare capanne e come nutrirsi di ghiande e cucire tuniche di pelle di porco, simili a quelle che ancora indossa la gente del contado nell’Eubea e nella Focide.

“Infine, per usare un linguaggio mitico, Zeus divorò i Titani, incluso se stesso nella sua forma più antica; gli Ebrei di Gerusalemme infatti veneravano un Dio trascendente, che racchiudeva in sé tutte le potenze planetarie della settimana: questa teoria è simboleggiata dal calendario dalle sette braccia e dai Sette Pilastri della Saggezza. Secondo Pausania (III 20 9) i sette pilastri “planetari che si ergevano presso la Tomba del Cavallo a Sparta erano ornati secondo un modo antiquato, e ciò si ricollegava forse a quei riti egiziani introdotti in Grecia dai Pelasgi (Erodoto Il 57). Non si sa se gli Ebrei abbiano preso a prestito questa teoria dagli Egiziani o viceversa; ma il cosiddetto Zeus eliopolitano di cui parla A. B. Cook nel suo Zeus, era egiziano nell’aspetto; la guaina che avvolgeva il suo corpo era adorna, nella parte anteriore, dei busti delle sette potenze planetarie e, nella parte posteriore, dei busti delle altre divinità olimpiche. Una statuetta bronzea di questo dio fu trovata a Tortosa in Spagna, un’altra a Biblo in Fenicia; su una stele marmorea di Marsiglia sono scolpiti sei busti di divinità planetarie e l’intera figura di Ermete, cui è data un’importanza maggiore, forse perché era ritenuto inventore dell’astronomia. Anche Giove, a Roma, fu proclamato dio trascendente da Quinto Valerio Sorano, benché a Roma la settimana non fosse venerata come a Marsiglia, a Biblo e (probabilmente) a Tortosa. In Grecia invece le potenze planetarie non prevalsero mai sul culto olimpico ufficiale, poiché venivano considerate non greche (Erodoto I 131) e dunque antipatriottiche.

martedì 1 luglio 2014

San Giorgio dei Portici


Difronte al Teatro Alighieri si vede uno spiazzo (Via Boccaccio) ottenuto con la demolizione di casa Bissi. Una lapide posta sulla parete del palazzo della Cassa di Risparmio di Ravenna "Qui sorgeva l'antica chiesa di San Giorgio nei Portici, che dal 1335 al 1768 fu commenda dei Cavalieri di Malta, chiusa al culto nell'anno 1802" ricorda che nel luogo esisteva una antichissima chiesa (probabilmente edificata prima del X sec.). Era chiamata "nei portici" perchè vi passava il portico che muoveva dalla chiesa di Santa Giustina.

Il Palazzo della Cassa di Risparmio di Ravenna, è ben inserito da Corrado Ricci nella sua Guida di Ravenna fra gli edifici illustri della città. Nell’ala occupata dalla Fondazione della Cassa di Risparmio è ubicata la stanza dei Soci fondatori e sono allocate importanti tele del Longhi e del Barbiani. Il 10 marzo del 1890, l’Assemblea dei Soci deliberò di “erigere una fabbrica ad uso di residenza della Cassa di Risparmio” e decise di costruire l’edificio nel luogo dove sorgevano l’antica chiesa e il convento di San Giorgio, detto “dei portici”, la cui fondazione si fa risalire all’anno 959.

Lo stile del Palazzo è rinascimentale e si rifà ai canoni ed ai modelli tipologici del palazzo cinquecentesco romano, pur presentando varianti interpretative e stilistiche proprie dell’epoca in cui fu edificato. I lavori furono avviati nel 1891 e completati nel 1895. La facciata in cotto imolese, con parti bugnate e parti in stile Corinto, guarda l’attuale piazza Garibaldi e presenta, al piano terra, finestroni con grate in ferro battuto finemente lavorato. A lavori ultimati, la facciata risultò essere di oltre undici metri più lunga di quella inizialmente progettata.



Il Palazzo sorge in un’area urbana centrale, contrassegnata da altri edifici con architetture rappresentative, fra queste il Teatro Alighieri inaugurato a metà dell’Ottocento e il porticato della zona Dantesca.

Il Palazzo storico è ora integrato da altri attigui edifici che lo completano funzionalmente e che costituiscono gran parte della zona Dantesca di cui sono di particolare rilievo i due Chiostri, di proprietà della Fondazione, che si interpongono fra gli uffici e la tomba del Sommo Poeta.

San Rocco Ravenna

Situata tra Porta Sissi ed il Portonaccio, sul luogo di una chiesa eretta nel 1583, troviamo la chiesa di San Rocco, lunga 29 metri e larga 24. I muri esterni sono in mattone a vista di color giallo chiaro. Antistante la facciata v’è un pronao massiccio, cui si accede attraverso una gradinata di sette gradini di sasso d’Istria, sormontato da una doppia fila di colonne anch’esse a mattoni a vista, sei in prima fila e quattro in seconda, con capitelli di ordine corinzio, privi però di ornamento. Sul sagrato, dal 1996, é stata collocata su un piedistallo, una statua, alta due metri circa, di Padre Pio da Pietralcina, il noto Cappuccino dalle Stigmate, realizzata in bronzo dallo scultore di Cesena Tino Neri. L'interno è a tre navate, dalle linee semplici ed eleganti, con influssi settecenteschi. La navata centrale è divisa da quelle laterali da tre arcate, sorrette da forti pilastri. Lungo i pilastri e nelle pareti del presbiterio si elevano delle lesene, coronate da capitelli di ordine corinzio, ornati di fogliami. La volta è a botte con unghie in corrispondenza delle finestre ad arco. Le volte delle navate laterali sono invece costituite da tre piccole cupole ribassate. In ciascuna delle navate laterali si aprono due finestre impreziosite da artistiche vetrate istoriate, realizzate nel 1981-82 dalle Vetrerie Artistiche Fiorentine.


La giurisdizione della Parrocchia di San Rocco è stata sempre molto estesa. Nell'anno 1786, risultavano ancora comprese nel suo territorio ben 10 chiese. Da un inventario del 1881, compilato dal parroco don Romualdo Gambi, conservato nell'archivio parrocchiale, risulta che il territorio della parrocchia di San Rocco si estendeva fino al mare, comprendendo Porto Fuori, Classe e Madonna dell'Albero e la sua popolazione ammontava a 5.135 anime raggruppate in 960 famiglie. Poi, agli inizi di questo secolo, cominciò lo smembramento del vasto territorio parrocchiale di San Rocco.

L'arcivescovo Buoncompagni, alla fine del sec. XVI, decise di far costruire nel borgo di Porta "Ursicina" una chiesa parrocchiale. La decisione fu presa per assistere spiritualmente la numerosa popolazione. Il nome della chiesa era "S.Agata", in seguito venne ricostruita e resa più accessibile, questi cambiamenti finirono nell'anno 1588. I muri esterni sono in mattoni color giallo, l'interno è a tre navate e ci sono tre altari in marmo; l'altare più grande proviene dalla chiesa di San Francesco e fu trasferito nel 1921. Ora dietro a questo altare vi è un'immagine raffigurante la "Madonna col bambino".

Nel 1912 fu eretta a parrocchia la basilica di Sant'Apollinare in Classe; nel 1917 fu eretta a parrocchia anche la chiesa di Santa Maria in Porto Fuori e, in quell'anno, il parroco della chiesa madre di San Rocco don Alessandro Nanni fu insignito del titolo di "arciprete". In seguito, si ebbero altre cessioni territoriali, a beneficio della nuova parrocchia di Santa Maria del Torrione e della chiesa di Santa Barbara in Santa Maria in Porto. E infine, nell'anno 1970, si ebbero le ultime due cessioni a favore delle Comunità di San Paolo e di San Lorenzo in Cesarea. Nonostante tutto, la parrocchia di San Rocco resta una delle più popolose della diocesi di Ravenna. Attualmente conta circa 13 mila anime. E la sua giurisdizione si estende ad un pur sempre vasto territorio, come si vede nella piantina. La nostra chiesa arcipretale, non abbastanza vecchia da essere antica, né tanto nuova da dirsi moderna, è una chiesa modesta, senza tante pretese, specialmente se messa a confronto con le stupende e famose basiliche ravennati. Tuttavia, essa è un ottimo, oltre che unico a Ravenna, esempio di puro stile Ottocento. 

Il culto dei San Rocco in Romagna.

In Romagna il culto di San Rocco è testimoniato da numerose chiese ed altari eretti in suo onore. Ne sorgono a Cesena, Gatteo, Faenza, oltre che a Ravenna. Nella chiesa della Madonna del Pino, fra i superstiti affreschi quattrocenteschi, si intravede la figura di San Rocco. Nel Museo Nazionale di San Vitale, nella raccolta delle icone del secoli XV-XVI, figura assai spesso, accanto alla Vergine, a San Sebastiano e a Santa Caterina d'Alessandria, anche l'immagine di San Rocco. A Ravenna la prima chiesa di San Rocco sorse in tempi non precisati fuori di Porta Sisi, oltre il ponte sul Ronco. Quando l'arcivescovo Boncompagni volle sottrarre alla parrocchia di Sant'Agata Maggiore la giurisdizione pastorale che aveva fuori le mura, istituì una nuova parrocchia che volle dedicare a San Rocco in ricordo della vecchia chiesa. La chiesa da lui voluta, che sorgeva dove e l'attuale dello stesso titolo, fu compiuta nel 1588 e giunse fino al tempi dell'erezione della nuova voluta dall'arcivescovo Falconieri e disegnata da Ignazio Sarti nel 1828. Dentro la chiesa, sull'altare di sinistra, domina la figura del Santo titolare vestito da pellegrino.


Il culto della Beata Vergine della Pace

Quattrocento anni fa, al sorgere della parrocchia, la chiesa fu dedicata a San Rocco, ma già nella prima grande tela posta sopra l'altare, la pala di Giovanni Battista Ragazzini, la figura centrale proposta all'attenzione dei fedeli era una Madonna col Bambino. Questa dolce figura, tutta mitezza e benignità, che possiamo ancora contemplare essendo la pala tuttora esposta in chiesa, esprime il concetto di una Madre Celeste, pronta a soccorrere chi l'invoca. E' infatti accompagnata dalla scritta "CLAMANTES EXAUDIT" e tale promessa ci sprona a rivolgerci alla sua intercessione. Nel Seicento la viva pietà mariana del popolo fece sorgere due cappelle dedicate alla Madonna: quella della Beata Vergine delle Grazie e brevissima distanza dalla chiesa parrocchiale, e quella della Beata Vergine dell'Albero nel territorio rurale. Nel Settecento sorse nella parrocchiale un culto della Madonna sotto il titolo di Beata Vergine della Pace. Come e perché fu scelto questo titolo mariano così bello e tuttora significativo, non è facile dire, mentre è certa l'esistenza di una prima statua quasi si sicuramente lignea, con vesti di stoffa, adorna di galloni dorati e di pizzi. La figura della Beata Vergine doveva essere eretta, con le braccia leggermente protese, ma senza il Bambino che veniva aggiunto, fissandolo in qualche modo sulle sue braccia, per le festività natalizie allorché si volevano offrire alla contemplazione dei fedeli anche le sembianze del Figlio Divino. Il culto della Beata Vergine della Pace fu molto sentito in parrocchia e sostenuto attivamente da una Compagnia, e poi da una Pia Unione ad essa intitolata, per tutto il secolo XIX. Nel 1846 quando fu completata la nuova chiesa parrocchiale la si consacrò alla Vergine Immacolata, come si legge bene sul frontone dell'edificio, e la scelta di tale titolo è da collegarsi al rilevo che ebbe in quel periodo il concetto dell'Immacolata Concezione di Maria, che poco dopo doveva essere proclamato ufficialmente dogma della Chiesa Cattolica. In San Rocco, però, persisteva ancora la devozione della Madonna della Pace e nella nuova chiesa si rispettò la tradizione dedicando a Lei l'altare laterale di destra, come nella vecchia chiesa, e provvedendo ad una nuova statua in gesso, questa volta col Bambino Gesù in braccio, mentre la vecchia statua venne conservata ancora per qualche tempo nella sacrestia. Attraverso i gravi turbamenti sociali del Novecento, si conservò in molti cuori la fiducia nella Madonna della Pace e particolarmente durante la prima guerra mondiale Essa fu invocata con fede dai parrocchiani. Nel gennaio del 1920 i solenni festeggiamenti di tutti i suoi devoti, riconoscenti per la fine della guerra, culminarono nell'incoronazione della Madonna e del Bambino con due corone d'oro. La particolare devozione alla Madonna della Pace è proseguita più sommessa fino ai nostri giorni, fattasi meno esclusiva per il maturare dei tempi e delle coscienze.

Casa Pignata



Ai numeri civici 55 -49 di Via Mazzini troviamo casa Pignata, già esistente nel 1485. Nel 1560 vi fu ospitato Torquato Tasso, come è ricordato in una piccola lapide sopra l'arco della porta. Di fronte a casa Pignata c'è la chiesa di San'Agata Maggiore.
Da una vecchia Guida:
In Ravenna, Parrocchia di S. Agata, Via Mazzini, già di Porta Sisi, sopra la porta del cav. Pignata, ora dell'erregio notaio sig. Vincenzo Rambelli, al civico 107.
Per ospitalità - Di Gasparo cavaliere Pignata - Fu qui accolto a grande onore - Torquato Tasso (Alessandro Cappi).
Ed in una delle stanze:
Gasparo di Agostino Pignata - Cavaliere giurisperito - In questa casa dà suoi antenati - Accolse con ogni maniera di cortesie onorò _ Il divino cantore della Gelusalemme - Torquato Tasso. - Vincenzo Rambelli - Fece porre questa memoria - L'anno M. DCCC. LVII. (Cav. Filippo Mordani).



Il 10 novembre del 1585 Torquato Tasso scriveva a Mantova al cav. Gasparro Pignata queste parole: Si ricordi, che io glielo ricordo volentieri, quando cortesemente m'accolse in Ravenna, mosso non da alcun obbligo, ma da sua gentil natura (L. 679, ediz. Guasti,). Il cavaliere Gasparo Pignata fu detto dal Conti: Vir insigni facultate dicendi; e dal ruggini, Jure consultus et eques streenus quolibet virtutum genere et actione, vir quidem singularis. - Fu carissimo a' duchi di Ferrara, ed usò molto alla lor corte. Nel testamento rogato in Venezia il 14 maggio 1590, dal notaioScipione Giliola viene enumerando tutti i regali avuti da Alfonso II, da Violante, da Ippolita e da pellegrino donatogli dal duca Alfonso, del quale vuol essere vestito dopo morte. - Anche Bernardo, padre di Torquato, nel 1556 andò a ricoverarsi a Ravenna nel tempo delle sue più gravi disavventure, e vi pervenne sprovveduto d'ogni cosa, senz'abiti, cenza biancheria, con due camicie sole ed il suo poema l'Amadigi. - V Uccellini, Vice Biblioterario della Classense, Dizionario, ecc, 1855, p. 366; Mordani, Prose, Fir. Lemonnier, 1854, p. 470.

mercoledì 18 aprile 2012

Santa Maria in Porto



La chiesa ed il monastero costituiscono un unico complesso, anche se il monastero è più antico della chiesa di oltre mezzo secolo. I religiosi decisero di erigere un nuovo monastero perché i veneziani , dominatori dal 1441 al 1509, ostacolarono la costruzione a lato della chiesa di Santa Maria di Porto Fuori. Dante, Paradiso, canto XXI, v. 123. << Nostra Donna in sul lito adriano >>. I veneziani temevano che l’edificio potesse offrire un facile rifugio ai nemici della Repubblica. Così i Canonici Lateranensi costruirono, poi, la grande basilica . Cronologia delle costruzioni che sorgono in questa area. Monastero: Inizio lavori 1496 Chiostro: Inizio lavori 1502 Ingresso dei Canonici: Inizio lavori 1503 Chiesa: Inizio lavori 1553 Copertura del tetto: 1561 Consacrazione: 1606 Facciata della chiesa: Termine dei lavori 1784 La Basilica di S.Maria in Porto fu eretta fra il 1553 ed il 1606. Per la sua costruzione fu utilizzato in parte anche del materiale proveniente dall'antica chiesa d'età onoriana di S.Lorenzo in Cesarea. La facciata, maestosa ed imponente, realizzata in sasso d'Istria, adorna di semicolonne e di statue, s'articola in due ordini, per l'inferiore dei quali l'architetto Camillo Morigia, verso la fine del sec. XVIII, si attenne alle linee d'un preesistente disegno. L'interno del tempio misura m 68 x 47,50 ed è in stile rinascimentale di gusto palladiano. Esso è diviso in tre navate mediante due file di pilastri alternati a colonne ed è coronato da una cupola ottagona che raggiunge metri 48,16 d'altezza. Sull'altare maggiore spicca il noto bassorilievo marmoreo dell'XI secolo raffigurante la Vergine orante che passa sotto il nome di "Madonna Greca". La leggenda lo vorrebbe giunto in volo sulle rive del mare di Ravenna, preceduto da due Angeli sostenenti fiaccole, alle prime luci dell'alba dell'8 aprile del 1100. Dietro all'altar maggiore, attorno al giro dell'abside, si dispiega un bel coro ligneo, che fu intagliato fra il 1576 ed il 1593 da Maestro Marino francese. Prossimamente la guida dettagliata. 



La Madonna Greca

L' immagine della Madonna Greca, venerata nella basilica-santuario di Santa Maria in Porto, è un delicato bassorilievo bizantino scolpito su marmo pario, che rappresenta la Madonna in atteggiamento di preghiera con le braccia alzate. Ai lati del capo, circondato da un’aureola, due scudi rotondi recano inciso a lettere greche il monogramma "Madre di Dio".
La Vergine indossa una ricca tunica, stretta da un cingolo attorno ai fianchi, sulla quale sono distribuite undici piccole croci di metallo dorato.
La festa della Madonna Greca viene celebrata a Ravenna la prima domenica dopo Pasqua (Domenica in Albis) perché, secondo la leggenda, l'immagine della Vergine apparve sul litorale di Porto Fuori, nei pressi di Ravenna, proprio la Domenica in Albis del 1100.
Poco prima dell'alba dell'8 Aprile 1100, Domenica in Albis, Pietro degli Onesti, secondo la leggenda tramandata dalle Carte Portuensi, stava recitando con altri sei monaci il mattutino, quando l'abside venne rischiarata da una luce. Non trattandosi della luce del sole, i monaci uscirono sulla spiaggia per seguire il chiarore che aveva ferito la notte e grande fu la loro meraviglia quando videro che sulle acque galleggiava un’immagine della Madonna, scortata da due angeli, ognuno dei quali recava una luminosissima fiaccola. Di fronte al prodigio i monaci si inginocchiarono e dopo aver salutato la Vergine con preghiere e canti, esortarono il beato Pietro a prendere la sacra immagine. Pietro, però, non si riteneva degno di accogliere la Vergine (si considerava "peccatore" e come "Pietro peccatore" sarebbe passato alla storia) ed invitò i suoi confratelli ad andare incontro alla sacra immagine. Questi, però, non riuscirono nell' intento perché la Vergine si allontanò di fronte al loro avvicinarsi. Sollecitato di nuovo dai confratelli ad andare incontro alla Vergine, il beato Pietro protese le braccia ed a questo gesto gli angeli scomparvero e la sacra immagine gli si fece incontro.
Così narra la leggenda, unica testimonianza scritta che racconti l'approdo sulle spiagge ravennati dell'immagine sacra. È certo, comunque, che il bassorilievo venne realizzato in qualche "officina" sulle rive del Bosforo, da dove si imbarcò su di una nave ai tempi della prima crociata, probabilmente per sfuggire allo scempio dell'iconoclastia. Non si esclude l'ipotesi che sia stato uno dei crociati a portarla dall'Oriente fino a noi. 



Unico dato certo è che nei dintorni di Ravenna esisteva sin dal XII secolo un tempio dedicato a Maria, eretto da Pietro degli Onesti sul luogo dove successivamente sarebbe sorta quella "casa di nostra Donna in sul Lido Adriano" (Dante, Paradiso, Canto XXI), oggi Santa Maria in Porto Fuori, che andò interamente distrutta durante un’incursione aerea notturna il 6 Novembre 1944. In questa chiesa, che per diverso tempo custodì l'immagine della Vergine Greca, si conservavano il sarcofago di Pietro "peccatore" (ancora oggi visibile) ed alcuni affreschi della scuola giottesca romagnola, dei quali oggi è possibile ammirare solamente alcune tracce. Presso la stessa chiesa, inoltre, era fiorente la pia unione dei "Figli e delle Figlie di Maria", fondata dallo stesso Pietro degli Onesti allo scopo di promuovere il culto della Vergine e di ricordarne l'arrivo ogni Domenica in Albis. La pia unione, all'inizio del Trecento, poteva contare su ben 700 mila iscritti, in tutta Europa.
Verso la metà del XV secolo, Ravenna passava sotto il dominio dei Veneziani ed il nuovo priore veneto del tempio dedicato a Maria, Silvano Morosini, iniziò la costruzione di un nuovo monastero in città per sfuggire alle incursioni dei pirati che andavano infestando il litorale. La posa della prima pietra avvenne il 5 Agosto 1496 e nel 1503 l'immagine della Madonna Greca lasciò la chiesa di Porto Fuori per trovare nuova sistemazione in una cappella all'interno del nuovo chiostro.
Nel febbraio 1511, alla vigilia del "sacco di Ravenna" del 1512 ad opera delle truppe francesi di Gastone de Foix, Papa Giulio II fu ospite dei canonici di Porto e con una solenne bolla, il cui testo si trova inciso su una tavola di marmo nell'ambularco della sacrestia, concesse favori spirituali a quanti avrebbero esarcito elemosine in favore della fabbrica del nuovo tempio che sarebbe sorto in onore della Vergine Maria.

La prima pietra del nuovo tempio, sulla quale stava inciso "Maria Graeca Portuensium Mater, Ravennatum Protectrix", venne posata il 13 Settembre 1553 dal priore Vitale Mercati il quale aveva ottenuto da Papa Paolo III, che pochi anni prima era stato ospite dei canonici, la concessione di poter demolire l'ormai labente basilica di San Lorenzo in Cesarea, per poter utilizzare il materiale ed ereditarne i privilegi.
Nel 1570 Vitale Mercati, promosso alla dignità di Abate da Pio V, poté compiere la solenne traslazione dell'immagine della Vergine Greca dalla cappella interna del chiostro al tempio ormai in via di ultimazione.

Il culto della Vergine fu continuato anche dal successore di Mercati, l'Abate Serafino Merlini, tant'è che dopo la sua morte, avvenuta nel 1623, le pareti della cappella erano ricoperte di ex voto per grazie ottenute. La basilica, intanto, fu ultimata nella facciata e nella gradinata solamente nel 1784, pochi anni prima della "rivoluzione francese" che lasciò anche a Ravenna i suoi segni. Il santuario, infatti, fu spogliato e depredato, ed i monaci vennero espulsi. Vi fecero ritorno, però, nel 1828 e vi restarono fino al 1870; ma a causa dell'incameramento dei beni ecclesiastici si trovarono nell' impossibilità di sostenersi e pertanto lasciarono il convento al clero diocesano. L'arcivescovo Vincenzo Moretti ed i suoi successori si fecero promotori del culto della Vergine che venne solennemente incoronata il 21 Aprile 1900 dal Capitolo Vaticano nella basilica Metropolitana.
Nel 1947 fu eletto arcivescovo di Ravenna monsignor Giacomo Lercaro, che il 1 Febbraio 1948 promosse la consacrazione della città di Ravenna al Cuore Immacolato di Maria ed affidò il santuario di Santa Maria in Porto ai sacerdoti salesiani di Don Bosco.

Nel 1952, per l'instancabile opera di Don Spartaco Mannucci, fu rinnovata la solenne incoronazione ad opera del cardinale Idelfonso il quale consacrò la città e la diocesi alla Madonna.

http://www.santamariainporto.it/

martedì 17 aprile 2012

PIANTA DELL’ANTICO PORTO DI RAVENNA (sec.XVI)





Questo disegno ad acquerelli policromi appartenente alla Biblioteca Classense di Ravenna, rappresenta secondo l’interpretazione più accreditata, una ricostruzione congetturale dell’antico porto di Ravenna di Augusto. A pochi metri dal litorale viene mostrato un bacino di ancoraggio dal profilo rotondo collegato al mare da un canale definito ai lati da due palizzate. E’ stato riprodotto, nel 2005, in un numero limitato di copie, nelle stesse dimensioni e negli stessi colori dell’originale a cura dei Lions Clubs Ravenna Host, Ravenna Bisanzio, Ravenna Dante Alighieri e Ravenna Romagna Padusa. Pur non essendo riportato nella mappa alcun dato temporale, per il raffinato stile del disegno e per l’architettura in esso contenuta, è stato ritenuto ascrivibile al sedicesimo secolo.

La città

Ravenna è uno scrigno d’arte, di storia e di cultura di prima grandezza, è una città di origini antiche con un passato glorioso e fu tre volte capitale: dell’Impero Romano d’Occidente, di Teodorico Re dei Goti, dell’Impero di Bisanzio in Europa. Nelle basiliche e nei battisteri della città si conserva il più ricco patrimonio di mosaici dell’umanità risalente al V e al VI secolo e otto monumenti di Ravenna sono inseriti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Se Ravenna fu il maggiore centro politico e culturale dell’Occidente nei secoli che accompagnarono il declino della civiltà latina, nondimeno essa offre testimonianze anche di epoche più recenti: dall’archeologia della Domus dei Tappeti di Pietra al vasto porto romano di Classe. E’ la città che serba le spoglie di Dante Alighieri e ne mantiene viva la memoria con importanti manifestazioni culturali. Nel sinuoso andamento delle sue strade si legge ancora il suo passato di centro lagunare, la presenza dell’acqua nei canali che la traversavano, chiusi durante la dominazione veneziana, sul finire del ‘400, aprendo di contro l’elegante spazio della piazza maggiore, oggi Piazza del Popolo. Nel ‘700 la città fu collegata al mare da un nuovo canale navigabile, l’attuale porto, che i Ravennati chiamano Candiano: il Canale Corsini aprì allora nuove prospettive di ripresa dell’antica vocazione portuale. L’offerta culturale di Ravenna è ricca e diversificata: il MAR, Museo d’Arte della città propone esposizioni periodiche di altro profilo e ospita diverse collezioni permanenti; il Museo Nazionale di Ravenna espone un variegato complesso di raccolte, tra le quali reperti da scavi di epoca romana e bizantina; il Museo Arcivescovile comprende la Cappella di Sant’Andrea (Unesco); il Museo Dantesco raccoglie cimeli legati al culto e alla fama del Poeta, mentre il Museo del Risorgimento testimonia i vivaci sentimenti mazziniani e garibaldini che animarono i Ravennati in un recente passato. A due passi dal mare, Ravenna offre anche nove località balneari lungo i suoi 35 chilometri di costa, per una ricca varietà di occasioni di soggiorno e vacanza. L’organizzazione dei servizi è efficiente e dinamica, e la scelta per godersi la vacanza è quanto mai ampia: sole e relax, giochi, attività sportive e fitness, escursioni e parchi, fra cui quello a tema di Mirabilandia, oltre a una variegata e gustosa offerta enogastronomica. Numerose sono le piste ciclabili, che consentono di raggiungere qualsiasi punto della città, il parco Teodorico, il Planetario, il Giardino delle Erbe Dimenticate o la Basilica di Sant’Apollinare in Classe. E per gli amanti della natura e delle escursioni nulla può essere più emozionante di una sosta nell’oasi di Punte Alberete, tra silenziose foreste allagate, rifugio per rare specie di uccelli o una visita al Museo NatuRa di Sant’Alberto, situato al confine con le valli. Le storiche pinete di San Vitale e di Classe, con la loro unicità quali monumenti naturali ha motivato il loro inserimento tra le aree protette del Parco del Delta del Po. Ravenna è un mosaico che vive.